«Trovandomi qui, in questo luogo, vicino a questo cimitero, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione».

Queste le parole di papa Francesco al Sacrario militare di Redipuglia, visitato nel 2014 per ricordare il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale e per ricevere il foglio matricolare del nonno Giovanni, soldato nelle trincee tra il Piave e l’Isonzo. Lo ha ripetuto all’Angelus di una settimana fa, di fronte al dramma della guerra in Ucraina: «La guerra è una pazzia».

Del resto, cos’altro hanno potuto pensare quei 50 ucraini, che il 20 febbraio sono partiti per una crociera sul Nilo e che, dopo una settimana di vacanza extra, sono stati sbarcati da un aereo in Polonia? Destinazione Chojna, estremo lembo di Polonia sull’Oder, quasi 1.000 km dalla frontiera con l’Ucraina.

In questa cittadina i “turisti”, provenienti da Kiev e Kharkiv, sono stati accolti dalla Comunità di sant’Egidio, che all’inizio dell’emergenza rifugiati ha allestito, in collaborazione con la sindaca, un centro di accoglienza in una scuola dismessa: 57 posti letto, ma anche un’area giochi per bambini e due aule per i corsi di polacco, tenuti in collaborazione con altri ucraini, oramai integrati grazie alla scuola di lingua e cultura polacca di sant’Egidio, che hanno frequentato gli anni scorsi.

La “nostra” vita

«Sono atterrati a Stettino e sono stati trasportati qui in pullman – racconta la responsabile Beata Junosz – molti avevano indosso ancora bermuda e t-shirt, le valigie piene di panni sporchi e souvenir. Quando gli abbiamo spiegato dove sta Chojna, ad alcuni veniva da piangere, ad altri da ridere. E anche a noi».

Perché siamo tutti uguali e ci siamo immedesimati nei profughi ucraini, che – ha scritto Marco Impagliazzo – sono «persone che fino a due settimane fa facevano una vita normale - la “nostra” vita”». Stando in Polonia da più di una settimana, ricevo ogni giorno decine di messaggi o email che mi segnalano le emergenze più complicate: orfanotrofi da evacuare, pazienti in dialisi in fila alla frontiera, anziane sole desiderose di ricongiungersi alle figlie, badanti in Italia.

Tra le tante segnalazioni – nessuna differibile – una merita di essere raccontata. «Ciao Max, scusami se ti disturbo per un’urgenza. Alla Sapienza c’è una ragazza di Kiev, in Erasmus, che ha il conto in una banca russa e ora le è impedito qualsiasi prelievo o pagamento, compreso quello per l’affitto. La mamma e la zia sono arrivate in Italia, da Kiev, perché la casa è stata bombardata. Cosa si fa in questi casi? A chi rivolgersi?». Come aiutare chi è colpito contemporaneamente dai bombardamenti e dalle sanzioni di questa folle guerra?

In questi giorni ho scoperto altre vittime doppie. Al ristorante Skamiejka, presentato sui social come «un angolo di anima russa a Varsavia», da giorni arrivano telefonate con insulti e cattive recensioni sui siti specializzati. E quasi nessun cliente.

«Se va avanti così, dovrò licenziare i dipendenti, che sono quasi tutti ucraini», ha detto la proprietaria del ristorante, russa, che tuttavia è oramai rassegnata alla crescita di sentimenti ostili nel paese dove ha scelto di vivere e lavorare. D’altronde, non sono solo sentimenti diffusi a livello popolare, ma anche fra tanti professori, giornalisti, imprenditori, che – davanti alla marea umana di oltre un milione e mezzo di rifugiati, 250mila solo nella capitale – non credono più nella possibilità di una soluzione negoziale e contano solamente sulle armi della Nato.

La solidarietà polacca

Ma c’è anche e soprattutto la Polonia, semplice e generosa. «La più grande ong del mondo» recitava un meme di questi giorni, quasi una riedizione del celebre verso di Potocki, «la Polonia si regge sul non governo».

Non si tratta di discettare sull’anarchismo polacco, ma constatare che i polacchi reggono grazie una mobilitazione sorprendente, nonostante l’ardua collaborazione tra ministri, prefetti e sindaci, non solo per motivi politici contingenti, ma anche perché, come recita un altro adagio locale, «dove ci sono due polacchi, ci sono tre opinioni».

Qui sta avvenendo una cosa mai vista in Europa, per lo meno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Cittadini, che per far posto a una famigliola ucraina dormono in corridoio. Parroci che hanno aperto le porte delle loro canoniche, fino a poco fa sigillate come fortezze.

Volontari di ogni età e condizione sociale che, dopo la scuola o il lavoro, si riversano nei centri di accoglienza con ogni sorta di cibaria o mercanzia da offrire gratuitamente. E il clima, nonostante tutto, è sereno e quasi festoso: un’ordinata confusione, perché i polacchi quando si auto organizzano dal basso danno il meglio di sé e sono insuperabili, un po’ come al tempo di Solidarność.

Reggeranno? C’è bisogno di sostegno, prima che questa euforia deperisca o devii pericolosamente. Alla scuola della pace di sant’Egidio a Varsavia, Talwasa, di 12 anni, ha disegnato la bandiera ucraina accanto a quella russa, spiegando agli amici polacchi (piccoli e grandi) che «per fare pace bisogna essere in due». In Polonia Talwasa è arrivata coi genitori e i fratellini lo scorso agosto da Kabul.

Bisogna fidarsi di questi maestri, che la guerra l’hanno vista e la conoscono, e ripetere con papa Francesco: «La guerra è una pazzia! Fermatevi, per favore! Guardate questa crudeltà!» Buon anniversario di pontificato, papa Francesco! Era proprio ieri. Ti e ci auguriamo che il mondo ti ascolti.

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