Negli ultimi anni si è iniziato a parlare di ecoansia, ovvero di sintomi ansiosi e persistenti dovuti alla consapevolezza degli effetti del cambiamento climatico. L’ecoansia è stata soprattutto riscontrata nelle nuove generazioni, che pienamente coscienti della condizione attuale, vivono il cambiamento climatico come l’unico orizzonte incombente, senza potersi adagiare sulle vecchie abitudini che lo hanno causato.

In quanto disturbo è stato analizzato da specialisti e paragonato ad altri disturbi psicologici della nostra epoca, collegati soprattutto alla vita online. Ma la sua rilevanza politica e culturale non può certo essere ridotta ad un malessere giovanile.

Se l’ecoansia è una forma emergente che manifesta disagio rispetto alla situazione attuale e futura, poco è stato detto riguardo alle altre risposte. Infatti, si può delineare uno spettro psicopatologico rispetto al cambiamento climatico, di cui l’ecoansia è la forma più razionale.

Oltre agli effetti sulla psiche individuale e ai disturbi che può comportare, la risposta al cambiamento climatico individua una gamma di atteggiamenti che possono essere spiegati tanto con categorie psicopatologiche, quanto con le tradizionali forme di espressione politica e culturale. Bisogna quindi parlare delle altre forme di espressione individuale e collettiva che il cambiamento climatico genera: depressione, dissociazione, negazione e regresso.

Depressione. È risaputo che ansia e depressione spesso si intrecciano nel vissuto di molti. Ma, culturalmente, la risposta depressa alla coscienza del cambiamento climatico si differenzia poiché genera un sentimento di ineluttabilità rispetto a cui ogni risposta è inutile.

Questa risposta può avere una forma individualmente razionale, se la persona si sente oggettivamente incapace di fare alcunché di rilevante rispetto all’immensità geologica del fenomeno e all’irrilevanza dell’azione individuale. Ma può anche prendere una forma più collettiva, le cui implicazioni sono il suggerire che possiamo soltanto adeguarci al cambiamento climatico o apprezzarne esteticamente e metafisicamente la complessità ontologica (come sembra suggerire l’idea di riscaldamento climatico come iperoggetto di Timothy Morton).

Dissociazione. Se i depressi riconoscono l’enormità del cambiamento ma, a differenza degli ansiosi, non sentono l’urgenza di agire e fare qualcosa, più subdola è invece la risposta di quelli che riconoscono l’importanza del riscaldamento globale ma ne traggono implicazioni inadeguate.

Incapaci di percepire l’urgenza del cambiamento necessario, procrastinano la risposta nel futuro o riconoscono a parole la drammaticità della situazione ma propongono risposte inadatte nella scala e nel peso. Senza fare una vera e propria rimozione, dissociano la questione climatica dalle altre, dandole un uguale se non minore peso rispetto a problemi ben più ordinari.

Analogamente alla dissociazione psichica, in cui un elemento disturbante (trauma) viene isolato per tutelare il resto dell’io, con la dissociazione collettiva si riconosce a parole il problema ma lo si relega in un angolo o lo si appiattisce assieme ad altre questioni per tutelare la stabilità del sistema.

Negazione regressiva. La forma più patologica è però un’altra. Del resto, ansia, depressione e dissociazione in qualche forma riconoscono la realtà del cambiamento. Invece, i negazionisti attuano una vera e propria negazione della realtà.

Pur essendo stato sconfessato da migliaia di ricerche, oltre che dagli effetti ora tangibili del cambiamento climatico, il negazionismo ha un certo successo politico e culturale, non solo perché permette di giustificare il solito tran tran, ma anche perché cerca di rimuovere psicologicamente e collettivamente qualsiasi attribuzione di responsabilità. In tal senso il negazionismo comporta un vero e proprio regresso a fasi primordiali dello sviluppo psicologico.

Come il bambino nella fase orale non percepisce altro dalle proprie esigenze e vive solo nel bisogno di suzione, i negazionisti estremi sembrano essere regrediti a una fase di estremo egocentrismo e incapacità di percepire il mondo al di fuori delle proprie esigenze. I negazionisti sono egocentrici non solo in senso morale, ma anche in senso cognitivo poiché, come adulti ancora legati alla fase orale, sono tanto attaccati al proprio consumo di risorse, quanto vittimisti e recriminatori nei confronti di quelli che vorrebbero farli diventare più adulti.

In definitiva, parlare di diverse categorie psicopatologiche rispetto al cambiamento climatico sembra metterle tutte sullo stesso piano. Ma questo sarebbe un errore poiché alcune di esse per lo meno riconoscono il fatto del cambiamento climatico e la sua emergenza, anche se ne traggono risposte discutibili o autoconsolatorie.

Il paradosso è che l’unica risposta razionale (l’ecoansia) sia stata anche l’unica a venire analizzata come un vero e proprio disturbo di cui alcuni soffrono. Ma a prescindere dall’ecoansia come vero e proprio disturbo psicologico, bisogna riconoscere che da un punto di vista politico e culturale il riconoscere l’urgenza e l’enorme importanza del cambiamento climatico dovrebbe essere l’unico atteggiamento valido da adottare adesso.

Affrontare collettivamente e politicamente il cambiamento climatico potrebbe essere l’unico modo per rispondere a queste reazioni: dando un canale operativo al potenziale di azione insito dell’ecoansia, e togliendo una scusa all’atteggiamento rinunciatario della depressione e dissociazione climatica.

Se queste forme di risposte problematiche al cambiamento climatico possono essere “curate” dall’iniziativa collettiva, si può sperare che la negazione regressiva diventi solo la patologia individuale di alcuni e non l’atteggiamento di una parte dell’élite politica ed economica.

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