«Le principali preoccupazioni della Russia sono state ignorate», è il messaggio lanciato martedì sera a Stati Uniti e Nato da Vladimir Putin in conferenza stampa. «Gli Stati Uniti vogliono trascinarci in una guerra sull’Ucraina che noi non vogliamo», e poi: «Siamo disponibili al dialogo». «Continuiamo il dialogo sostanziale», è a sua volta l’invito di Washington a Mosca. Per l’Europa, il «dialogo sostanziale» si traduce in una miriade di telefonate e incontri che portano tutti a Vladimir Putin. A parte un nocciolo duro di paesi dell’Europa orientale come la Polonia, che fanno muro contro le ambizioni espansionistiche russe, i leader europei sono presi ciascuno dal lavoro di tessitura negoziale a tu per tu con il Cremlino. Dopo che l’Unione europea è stata sostanzialmente messa ai margini da Russia e Stati Uniti, adesso che la via diplomatica è aperta, il Cremlino intraprende dialoghi bilaterali con i paesi europei più disponibili al compromesso. Il pontiere per eccellenza della Russia in Europa è il premier ungherese Viktor Orbán, che infatti questo martedì era seduto allo stesso tavolo con Vladimir Putin al Cremlino. Ma anche il presidente del Consiglio Mario Draghi dialoga, per «ripristinare un clima di fiducia»; quanto al presidente francese Emmanuel Macron, è stato il primo a dichiarare apertamente che l’Europa deve avviare un dialogo diretto con Mosca. E la sua linea, telefonica e diplomatica, è tra le prime aperte alla Russia.

Lo stato delle trattative

(Vladimir Putin durante il colloquio con il premier ungherese. Foto LaPresse)

Il canale negoziale ufficiale si è riaperto mercoledì sera, quando Nato e Stati Uniti hanno fatto avere a Mosca, per iscritto come chiesto dal Cremlino, le loro risposte alla posizione della Russia. La posizione russa consiste nella pretesa di frenare sia le nuove adesioni alla Nato sia le attività dell’alleanza nell’Est Europa. Sia gli Usa sia la Nato, pur cercando di aprire canali di dialogo sul controllo delle armi, la trasparenza e la riduzione del rischio, hanno ribadito la politica della «porta aperta»: se uno stato desidera entrare nella Nato, non gli verrà impedito di fare richiesta; dopodiché, come sempre, servirà il consenso dei 30 membri dell’alleanza. La Russia si è riservata di far avere, dopo un certo tempo di riflessione, la sua risposta scritta vagliata dal presidente in persona. Che comunque martedì sera ha confermato ciò che già il suo ministro degli Esteri aveva fatto intendere: manca un «segnale positivo» sulla questione dell’espansione della Nato a est. O per dirla con le parole di Putin, «le richieste della Russia sono state di fatto ignorate: non c’è stata una risposta adeguata alle nostre richieste principali». Il Cremlino ribadisce quindi queste richieste: «Lo stop all’espansione della Nato, del dislocamento di armi vicino ai confini russi e il ritiro delle infrastrutture Nato alla situazione del 1997».

Il pontiere di Putin nell’Ue

Le parole di Putin sono state pronunciate in conclusione dell’incontro con il premier ungherese, che sempre più, negli ultimi anni, ha rafforzato le relazioni pragmatiche con Mosca. Non è sempre stato così: nel 1989, da giovane liberale, in piazza degli Eroi a Budapest, Viktor Orbán invocava il ritiro delle truppe sovietiche. Il riallineamento di Orbán nei confronti di Mosca comincia prima ancora della sua rielezione del 2010. Un primo incontro con Putin nel 2009 e un secondo nell’aprile 2010 gettano le basi di una nuova «alleanza pragmatica». In tempi recenti, la sintonia di interessi è giunta a maturazione: basti pensare alla scelta del vaccino russo Sputnik da parte dell’Ungheria, o al suo ruolo foriero di frammentazione nei Balcani occidentali. Nel caso specifico della crisi ucraina, Budapest ha negato aiuto a Kiev «se non cambia politiche verso la minoranza russa», e ha espresso contrarietà verso il dispiegamento di truppe Nato nell’Est Europa. A tutti gli effetti, Orbán fa il gioco di Putin nell’Ue, e costituisce anche un ostacolo concreto quando l’Unione deve decidere all’unanimità. Martedì si è presentato a Mosca con l’idea di aumentare, invece che ridurre, la dipendenza dal gas russo, e per rilanciare, tra i vari affari bilaterali, l’ampliamento assieme ai russi della centrale nucleare di Paks, in Ungheria. Ma il premier ungherese gioca a livello estremo un gioco che anche altri leader europei stanno facendo, non a caso prima di approdare a Mosca ha fatto un salto a Parigi. C’è del vero in ciò che dice il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, sulle attitudini occidentali: «In pubblico, c’è un’atmosfera di guerra, ma dietro le quinte si dialoga».

I poli opposti in Europa

Anche se Orbán è il caso più estremo, l’attitudine al dialogo è condivisa da Roma e Parigi, mentre Berlino pur col cambio di governo conserva la merkeliana attitudine al pragmatismo, con tutte le contraddizioni che ne derivano. Martedì mattina Draghi ha parlato al telefono con Putin, la sua nota parla della «importanza della de-escalation e dell’esigenza di ricostruire un clima di fiducia»; la versione del Cremlino contempera anche «la soddisfazione di Putin per il recente incontro con gli imprenditori italiani e la disponibilità a fornire con stabilità il gas a Roma». Pure Macron, dopo la telefonata con il presidente russo lo scorso venerdì, lo ha risentito anche questo martedì.

In questa strategia del compromesso portata avanti coi bilaterali restano fuori i paesi che più temono gli eccessi di Mosca, come la Polonia, militarmente avvinghiata a Nato e Usa. Varsavia, Londra e Kiev hanno discusso una alleanza trilaterale; intanto Boris Johnson, anche per fuggire alle polemiche domestiche, era da Volodymyr Zelensky, mentre il governo polacco garantiva le sue armi a quello ucraino.

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