«Così è davvero troppo», sbotta Nicolas Sarkozy. È la primavera del 2016, l’ex presidente francese arringa così i militanti del suo partito, i Républicains. Quel “troppo” sono i quasi mille parlamentari francesi, fra deputati (577) e senatori (348). Il numero non è molto distante da quello del parlamento italiano (630 eletti alla Camera e 315 al Senato) che è tema centrale del referendum sul taglio dei parlamentari di cui oggi sapremo il risultato. «Le assemblee, quando sono sovrabbondanti, diventano inutili. Entro il 2022 avremo 400 deputati e 200 senatori», dice Sarkozy.

La sua idea di ridurre del 30 per cento i membri di Assemblea nazionale e Senato è un tentativo di catalizzare il sentimento antipolitico dei francesi ma serve anche a far passare un’altra idea di riforma, assai meno popolare: l’eliminazione dei doppi incarichi. L’anno dopo ci riproverà Emmanuel Macron. «Tagliare di un terzo i parlamentari significa essere più efficaci», dice, trasformando la riduzione in uno dei punti forti della sua campagna presidenziale. La storia si ripete con i gilet gialli, che nel 2019 reclamano il taglio del numero degli eletti, forti anche dei sondaggi: ben l’82 per cento sostiene la proposta. Con il progetto di riforma arenato prima per l’affaire Benalla (lo scandalo relativo alla guardia del corpo del presidente Macron) e poi per l’ostruzionismo interno al Senato, arriviamo all’autunno 2020: il numero dei parlamentari è rimasto identico a prima.

Il sentimento anti casta
Il copione è simile nel Regno Unito. Ci sono voluti dieci anni di discussioni e rinvii per far cadere del tutto l’idea di David Cameron di ridurre la Camera dei comuni da 650 a 600 membri. Ad accantonarla è stato l’attuale Primo ministro, Boris Johnson, con la motivazione della Brexit. Secondo Johnson il distacco del Regno Unito dall’Unione europea e dalle sue regole porterà a «un aumento del carico di lavoro per i legislatori». Tradotto: non è il momento di fare tagli.

Michela Palese è una ricercatrice della sede londinese della Electoral reform society, l’organizzazione nata in Gran Bretagna nel 1884 per difendere la democrazia. Palese dice che negli anni della austerity, durante il governo di coalizione Cameron-Clegg (conservatori e liberali) che si è insediato nel 2010, l’idea del taglio ha intercettato un «sentimento anticasta» piuttosto diffuso. Però lo ha in qualche modo «dirottato sull’obiettivo sbagliato: mentre si ipotizzava di tagliare il numero di deputati eletti, rafforzando così il potere dell’esecutivo, allo stesso tempo si manteneva intatta e anzi si ampliava la Camera dei lord, che non viene scelta dai cittadini». Lo stesso Cameron che propugnava il taglio di 50 deputati eletti, durante il suo mandato ha nominato 244 nuovi membri della Camera dei lord, ovvero il 17 per cento in più, con una media di 40 non eletti in più all’anno.

In questi e in altri casi la spinta per il taglio del numero di rappresentanti cresce a ridosso della crisi finanziaria del 2008 e delle politiche di austerità che ne sono seguite, e viene capitalizzata politicamente per poi finire molto spesso nel nulla. Rimane allora una questione da dirimere: al di là della retorica, esiste un numero ideale di parlamentari? Il costo della rappresentanza è davvero superiore al beneficio? Un numero più ridotto comporta davvero maggiore efficienza?

La regola aurea
Rein Taagepera, dal quale prende il nome l’indice di Laasko-Taagepera, è professore emerito di Scienze politiche nelle università di Tartu e della California a Irvine. È lui ad aver elaborato una regola aurea del numero di parlamentari: «Il numero di deputati nella camera bassa tende a essere pari alla radice cubica del numero di abitanti». In questo modo si «minimizza il communication load, il carico comunicativo, sul singolo deputato». Per il politologo di origine estone, specializzato in modelli quantitativo-predittivi, anche il concetto di “carico comunicativo” è definito da formule matematiche. Semplificando, il “peso” da gestire per ogni eletto è dato dalla combinazione di due elementi: uno è il rapporto tra popolazione e numero di rappresentanti (meno sono gli eletti, maggiore è il numero di abitanti corrispondente per ogni rappresentante). Attualmente in Italia il rapporto è di circa 96mila abitanti per deputato, mentre con il taglio il numero salirebbe a circa 151.200. L’altro fattore da considerare sono gli scambi comunicativi che ogni eletto deve sostenere con e tra gli altri parlamentari. Se gli eletti sono tanti, tanti sono i colleghi coi quali interfacciarsi, come pure maggiore è il dibattito tra i vari colleghi. «Con il numero di deputati italiani attuale, cioè 630, possiamo dire che gli elettori sono ben serviti, però il numero di canali comunicativi che un deputato deve gestire nella Camera è sovrabbondante: ci sono troppi giochi politici di portata nazionale». Nel caso dell’Italia, stando alla formula, «con sessanta milioni di abitanti ci si aspetterebbero circa 391 deputati». Sulla base dei suoi modelli il professore arriva a questa conclusione: ridimensionare i 600 eletti di Montecitorio fino a 391 «ridurrebbe leggermente il rapporto degli elettori con il loro deputato e la sua accessibilità, ma allo stesso tempo sanificherebbe leggermente la politica a livello nazionale». La parola chiave, dice Taagepera, è “leggermente”: «Non aspettatevi miracoli», spiega. Come si regolano gli altri paesi europei? Il panorama è variegato. La piccola Malta rappresenta un’eccezione per l’alto numero di rappresentanti rispetto alla popolazione. Con una Camera da 67 membri, il rapporto è di 6.590 abitanti per deputato.

A chi troppo a chi poco
La Spagna si trova sul versante opposto: con 350 parlamentari e una popolazione di quasi 47 milioni, il rapporto è di un eletto per oltre 133mila abitanti. «Taagepera ha scoperto che tende a esserci una connessione tra il numero di abitanti di un paese e il suo parlamento o, in caso di bicameralismo, della camera più importante. Penso che questa regola possa essere usata anche in senso prescrittivo, per decidere il numero di parlamentari di cui dotarsi», dice il politologo Arend Lijphart, padre teorico del consociativismo e professore emerito all’università della California a San Diego. «Allora, per l’Italia questo significa circa 400 deputati. Però non avrei obiezioni in caso di dimensioni maggiori, diciamo 500 o 600 deputati».

Per l’autore di Patterns of Democracy sarebbe davvero fuorviante definire il numero di rappresentanti «sulla base di quanto ci costano: anche volendo considerare non solo i loro salari ma pure quelli dei loro staff, l’ammontare sarebbe assai piccolo rispetto alla spesa pubblica complessiva, mentre avere una rappresentanza davvero ampia dovrebbe essere in cima alle nostre preoccupazioni». Insomma, se si vuole disegnare un parlamento il più efficace possibile per l’esercizio democratico, il numero dei suoi componenti non è l’unica cosa che conta. Lijphart è noto proprio per i suoi lavori sulla consensus democracy, da intendersi come modello opposto alla democrazia maggioritaria.

Il cuore della questione sta nel modo di intendere la democrazia: o come governo da parte della maggioranza (government by the majority of the people) a discapito della minoranza oppure come governo per la più ampia parte di società (government for the people), quindi raggiungendo il più diffuso consenso possibile.

Non è un problema di numeri
La sua tesi è che la rappresentazione ampia delle istanze politiche e la ricerca di un diffuso consenso tra le parti non si traducono affatto in una inefficacia decisionale, anzi. «I risultati della mia ricerca mostrano che la democrazia consensuale è sotto ogni punto di vista migliore di quella maggioritaria: non solo è più democratica, ma funziona pure meglio, è più efficiente», dice Lijphart.

Tra gli effetti collaterali positivi c’è pure quello di ammorbidire le polarizzazioni e quindi possibilmente fare da antidoto a derive populiste. Ecco perché, mentre per Lijphart non è dirimente avere una Camera bassa di 400 piuttosto che di 600 membri, fa la differenza ad esempio il sistema elettorale. «L’Italia ha fatto l’errore di manipolare eccessivamente il suo sistema, mentre sono persuaso che un semplice, schietto proporzionale sia quello che produce la più accurata rappresentanza degli elettori».

Questo è uno dei fattori chiave che distinguono il modello consensuale, ma vanno considerati anche: un equilibrio di poteri tra esecutivo e legislativo (mentre il modello maggioritario pende a favore di quello esecutivo), un sistema multipartitico (a differenza del bipartitismo che caratterizza la majority democracy), una vocazione consociativa (quindi volta al compromesso e alla concertazione) per quel che riguarda la rappresentazione degli interessi. Il parlamento ideale, se si potesse ottenerlo in vitro, sarebbe un’assemblea che esplica pienamente la sua funzione rappresentativa. A prescindere dalla taglia esatta.

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