Le strategie mediorientali della Casa Bianca, delineate in un documento riservato attribuito a un centro studi della regione, rivelano che la priorità della politica estera di Washington non è più la diffusione di valori democratici – il mantra «esportare democrazia e mercato» – bensì la stabilità geopolitica e la tutela degli interessi economici statunitensi.

Vaste le implicazioni dell’impostazione pragmatica e spregiudicata di Donald Trump per gli equilibri in Medio Oriente, e per il ruolo futuro di Israele, Iran e dei principali paesi arabi. Il documento, intitolato “Rapporto top secret su Trump, Iran e Israele”, si apre con l’attacco contro le installazioni nucleari iraniane, operazione descritta come «audace» e «decisiva» per scongiurare «la distruzione di un intero paese, Israele». Tuttavia, il report riconosce che «il regime iraniano non è ancora sconfitto», il raid ha avuto un impatto, ma non ha prodotto il collasso del sistema di potere degli ayatollah né ha limitato la loro influenza (anzi ha ricompattato la nazione) né intaccato il suo potenziale nucleare.

Obiettivi strategici

Il testo elenca in modo esplicito gli obiettivi strategici di Trump per l’intera regione. Il presidente mira alla «stabilità nel mondo musulmano, perennemente turbolento», preferendo un equilibrio garantito da regimi autoritari piuttosto che da processi democratici. Realpolitik: più agevole trattare con dittatori consolidati che con società in transizione. Tra gli interlocutori, figure come Ali Khamenei in Iran, Asim Munir in Pakistan, Muhammad bin Salman in Arabia Saudita e Abd Al-Fattah Al-Sisi in Egitto.

Accanto alla stabilità politica, c’è l’imperativo economico: garantire «prezzi del petrolio bassi e stabili», interesse condiviso tanto da Washington che da Bruxelles. A questo si aggiunge un ulteriore elemento di natura personale, riferito a Trump: l’ambizione, definita «incontenibile», di ottenere «il riconoscimento della leadership globale» attraverso l’assegnazione del Nobel per la pace.

Redatto da un centro studi diretto da un ex ufficiale dell’intelligence israeliana, tra gli obiettivi dichiarati del documento anche la «risoluzione della ferita aperta di Gaza», richiesta in modo pressante da molti leader arabi ed europei. Nessun accenno a forme di condanna per i massacri israeliani nella Striscia, lasciando intendere un’accettazione implicita del prezzo umanitario pagato sul campo (secondo recenti stime, i morti palestinesi sarebbero oltre 100mila).

Le scelte degli Stati Uniti

Il report chiarisce che il presidente americano rifiuta ogni ipotesi di «riedizione dei fallimentari esperimenti neocon di esportazione della democrazia», esperienze associate al caos jihadista in Afghanistan e all’espansione iraniana in Iraq. L’esportazione di valori occidentali – democrazia, libertà, diritti – viene definita «una ricetta per il disastro».

Nel quadro di questa dottrina di stabilità autoritaria, Trump esclude il sostegno alle minoranze oppresse, comprese quelle etniche dell’Iran contrarie al regime clericale degli ayatollah. Qualsiasi destabilizzazione dell’ordine esistente rischierebbe di innescare crisi con effetti diretti sul prezzo del greggio, elemento definito «fondamentale per Usaed Europa», che «condividono la necessità di mantenere rapporti funzionali con regimi autoritari per ragioni energetiche e di sicurezza».

Uno dei passaggi più significativi riguarda l’immunità di fatto riconosciuta alla guida suprema iraniana, Ali Khamenei. Israele, si afferma, «non può toccarlo, perché il presidente Trump non vuole il caos – né ora, né mai». Questa protezione – altro passaggio cruciale – si estenderebbe anche ad Hamas, con cui Washington ha già intrattenuto canali di comunicazione.

Hamas e il controllo di Gaza

La previsione operativa è che Hamas manterrà il controllo su Gaza, mentre Israele sarà gradualmente spinta a un ritiro, conservando solo la facoltà di azione militare in caso di minaccia diretta, proprio come nella fase precedente la guerra. Il rapporto avverte che un’eventuale opposizione da parte di Netanyahu verrebbe sanzionata: Tel Aviv non riceverebbe più aerei da guerra né munizioni, con un impatto diretto sulla sua capacità di deterrenza.

Una delle ipotesi più rilevanti riguarda l’espansione dell’egemonia iraniana. «Nei prossimi mesi – si legge – la predominanza dell’Iran nel mondo musulmano diventerà evidente». La capacità di Teheran di esercitare pressione sul flusso energetico globale (Hormuz) viene considerata il cardine di questa ascesa.

Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, secondo l’analisi, poco alla volta scivoleranno nell’orbita iraniana, pur senza rotture immediate. Il bombardamento Usa dei siti nucleari iraniani, definito «atto di teatro», non ha mutato la sostanza del problema: la minaccia nucleare permane, grazie anche alla possibilità per Teheran di acquisire tecnologia strategica attraverso il Pakistan, alleato di Washington.

Nessun regime change

A ciò si aggiunge la prosecuzione delle altre forme di influenza iraniana: missili balistici, attacchi informatici, operazioni terroristiche via proxy. Israele, in questo scenario, dovrà continuare a combattere per la propria sopravvivenza.

Il documento esclude infine l’eventualità di un cambio di regime a Teheran. Le proteste antigovernative degli ultimi anni vengono archiviate come «insignificanti», mentre la «realtà creata dalla rivoluzione islamica» viene data come dominante anche per il futuro.

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