In Europa, così come negli Stati Uniti, in India o in Brasile, il dibattito politico è sempre più contrassegnato da un’isteria identitaria e da un’ossessione per l’origine etnica. In Francia, i nuovi tribuni della destra e dell’estrema destra incitano quotidianamente all’odio contro i migranti facendo leva sulla paura per la cosiddetta “grande sostituzione”, dimenticando che il paese si è sviluppato nel corso dei secoli proprio grazie a un continuo meticciato. E molti non riescono ad accettare che la popolazione francese oggi comprenda tra il 7 e l’8 per cento di persone di religione musulmana rispetto all’1 per cento scarso di cinquanta anni fa. Anche se ogni contesto xenofobo ha una sua peculiarità, oggi ci troviamo di fronte a una violenza verbale che fa pensare alla retorica dell’odio nel periodo tra le due guerre mondiali contro l’immigrazione ebraica e dall’Europa dell’est.

Il rifiuto totale della diversità – delle origini e delle tradizioni culturali, religiose o anche solo dell’abbigliamento – abbinato alla convinzione che vi sia una minoranza che gode di tutti i benefici e che ruba il lavoro e il salario alla popolazione autoctona, alimenta una visione del tutto irreale di stato-nazione e della sua presunta omogeneità delle origini. Questa combinazione genera una forte spinta a rifiutare, ed epurare dal corpo sociale, i gruppi indesiderati: una vera e propria brama per la loro eliminazione, aberrante oggi come ieri.

La colpevolizzazione dei musulmani

(AP Photo/Daniel Cole, File)

Rispetto al passato, la situazione attuale ha una sua particolarità su cui i seminatori d’odio fanno totale affidamento: la paura – legittima – del terrorismo jihadista che porta così a colpevolizzare milioni di persone che non c’entrano nulla. Dopo l’orrore e il trauma degli attentati del 2015-2016 e la barbara esecuzione di Samuel Paty nel 2020, è ovvio che tutti vogliano trovare un perché e i mandanti. Tuttavia alcuni tra i politici più cinici hanno avuto la brillante idea di accusare di complicità ideologica con i terroristi i ricercatori universitari interessati al tema della discriminazione e alla storia coloniale; oppure, i musulmani che comprano cibo halal, indossano i legging in spiaggia, portano il velo per strada o durante una gita scolastica.

Queste insinuazioni sono ripugnanti e totalmente fuori luogo, in una situazione in cui tutti dovrebbero far quadrato attorno al sistema giudiziario, alla polizia e agli investigatori, per combattere una microminoranza terroristica. Questa logica del sospetto generalizzato può portare solo a un irrigidimento e a un “dialogo tra sordi”.

Il terrorismo jihadista imperversa in Nigeria, nel Sahel, in Iraq, nelle Filippine. Allora, in questo caso, si dovrebbero sospettare anche gli intellettuali francesi e statunitensi? O i musulmani, che spesso sono le prime vittime degli attentati? Tutto ciò è grottesco e pericoloso. Invece di mobilitare l’intelligenza collettiva per comprendere questi processi storico-sociali inediti e complessi – ed è ciò che fanno proprio i ricercatori universitari – si cade nella logica miope della ricerca di un capro espiatorio.

In India, questa strategia basata sulla violenta colpevolizzazione della minoranza musulmana e degli intellettuali che la difendono (ritenuti “anti-patriottici” dai seminatori d’odio) – a cui hanno fatto seguito violenze, pogrom e privazioni della cittadinanza – è stata utilizzata per anni dai nazionalisti indù del bjp (Bharatiya Janata Party) per arrivare e rimanere al potere.

In Europa, la destra anti-migranti e anti-musulmana non fa altro che copiare questa tattica. L’attuale governo francese, che si dichiara di centro, purtroppo ha contribuito a banalizzare la nauseabonda retorica sulla “cancrena islamo-gauchiste nell’università”, espressione ignobile dell’estrema destra ripresa da una compagine governativa che è sostenuta anche da elettori ed eletti di centrosinistra; un governo che dopo aver favorito una deriva a destra ora pretende di esserne la soluzione, come un pompiere che dopo aver appiccato un incendio cerca di spegnerlo.

Dov’è la giustizia?

Fortunatamente, c’è un’ampia maggioranza di cittadini che non si riconosce in questa destra isterica e nel suo cinismo. È dispersa tra vari partiti e candidati, proviene da differenti contesti politici, spesso si rifugia nell’astensione. Ma è consapevole che una tale ossessione identitaria non porterà a nulla di buono e non risolverà gli attuali problemi sociali ed economici.

Ed è proprio questo uno degli effetti più perversi generati dall’estrema destra nel dibattito politico: tutti parlano di identità e nessuno si occupa delle misure socio-economiche e anti-discriminatorie di cui avremmo bisogno per arrivare a una convivenza civile; misure che richiedono dibattiti approfonditi in un clima sereno, dato che la posta in gioco è del tutto nuova.

Le discriminazioni dovute all’origine etnica non sono mai state così evidenti, che si tratti dell’accesso all’istruzione, all’occupazione, all’abitazione, della sicurezza, del rispetto o della dignità delle persone; eppure, non si è parlato mai così poco di giustizia e di uguaglianza dei diritti, di misure contro il razzismo e di azione contro le discriminazioni. Questo libro si rivolge a tutti coloro che sono fortemente preoccupati da questa situazione.

Un modello universalista di azione

Va detto in modo chiaro: nessun paese, nessuna società ha messo a punto un modello perfetto per contrastare il razzismo e le discriminazioni. Su questo argomento, nessuno è in grado di dare lezioni ai paesi vicini o al resto del mondo. L’idea per cui sarebbe sufficiente perpetuare il modello nazionale in vigore o, al contrario, importare il sistema adottato in un altro paese, è falsa e illusoria. Su questioni così complesse bisogna avere molta umiltà ed esaminare con pazienza le lezioni che è possibile trarre da ogni singola esperienza.

La vera sfida è costruire un nuovo modello francese ed europeo, transnazionale e universalista, per contrastare le discriminazioni; un modello che riporti la politica anti-discriminatoria nel quadro più generale di un progetto sociale ed economico egualitario; che riconosca la realtà del razzismo e delle discriminazioni e si doti di strumenti per misurarli e correggerli, senza irrigidire le diverse identità, che sono sempre plurali e molteplici e continuamente in via di ridefinizione e ricostruzione.

Iniziamo con il primo punto: per agire concretamente in favore dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità – indipendentemente dalle origini e dall’etnia – occorre innanzitutto promuovere l’uguaglianza sociale: che si tratti dell’accesso all’istruzione e alla sanità, all’alloggio e ai servizi pubblici, della riduzione dei divari di reddito e di patrimonio, o dell’estensione delle varie forme di partecipazione alla vita civica, sociale ed economica.

In altre parole, per ridurre le disuguaglianze legate alle origini etniche e di nazionalità, è necessario affrontare le disuguaglianze tra le classi sociali in modo globale. Alla luce delle discriminazioni legate alle origini etniche e alle nazionalità, una politica di riduzione delle disuguaglianze sociali non sarà sufficiente e dovrà essere integrata da precise misure anti-discriminatorie. Tuttavia, sarà fondamentale collocarle nel quadro di un’azione più ampia di giustizia sociale ed economica. Per diversi motivi.

In primo luogo, i migranti – o chi appartiene a gruppi sociali discriminati – sono numericamente rilevanti nelle classi popolari, soprattutto tra gli operai e i salariati: pertanto, dovranno essere tra i primi a beneficiare di una strategia politica per la riduzione delle disuguaglianze e il miglioramento della condizione sociale. Sono queste, infatti, le misure che permettono di ottenere risultati concreti nella vita quotidiana e nelle condizioni materiali dell’esistenza. Al tempo stesso, è fondamentale abbandonare una visione meramente “culturale” del razzismo e della xenofobia, portando l’attenzione sul fatto che tutti i pensieri, i discorsi e le rappresentazioni della xenofobia nella storia fanno sempre parte di uno specifico contesto socio-culturale ed economico, caratterizzato da rapporti di concorrenza (reali o presunti) tra i gruppi sociali rispetto al lavoro, ai salari, ai ruoli, ai vantaggi, al riconoscimento e alla dignità.

Il razzismo è un fatto sociale che si nutre dell’ingiustizia economica e della percezione di questa ingiustizia; e non deve mai essere pensato come “naturale”, né come ineludibile. Senza un approccio globale di giustizia socio-economica, basato sulla diminuzione generalizzata delle differenze di ricchezza e di status, non potrà mai esserci una vera giustizia etnica; diversamente, si rischierebbe di accentuare le divisioni all’interno delle classi popolari. Va detto in modo chiaro: l’involuzione identitaria che imperversa da qualche decennio in molte parti del mondo deriva in gran parte dalla rinuncia a trasformare il sistema economico in senso egualitario e universalista, e ha portato all’inasprimento della competizione all’interno delle classi sociali.

Occorre anche sottolineare che le categorie etniche si sono sviluppate storicamente in modo indissociabile dai processi di rappresentazione e legittimazione della disuguaglianza tra classi sociali. Che si tratti della discendenza dai Franchi o dai Galli attribuita alla nobiltà e al terzo stato in Francia sotto l’ancien régime, delle relazioni tra i signori anglonormanni e i contadini irlandesi nelle isole britanniche a partire dal Medioevo e fino all’epoca contemporanea, o dei rapporti tra le popolazioni cattoliche, ebraiche e musulmane durante il periodo della Reconquista in Spagna – la parola “razza” e le categorie socio-razziali sono state sempre utilizzate per rappresentare e strutturare i rapporti di potere tra gruppi sociali. Le nuove categorie che si sono sviluppate a seguito dell’incontro con i nativi americani, del traffico di esseri umani attraverso l’Atlantico e della nascita dei moderni imperi coloniali sono sempre state dicotomiche (bianco/nero, europeo/non europeo) in funzione delle esigenze di legittimazione dell’ordine schiavista e coloniale; si tratta di categorie da cui oggi, in parte, noi dipendiamo ancora, ma che possono essere comprese nella loro complessità e mutevolezza solo in una prospettiva socio-razziale più ampia.

In altre parole, le categorie razziali sono sempre categorie socio-razziali che utilizzano genealogie e caratteri attribuiti per strutturare i rapporti tra gruppi sociali e le disuguaglianze sociali in generale; ed è così che bisogna interpretarle per riuscire a liberarsene.


Il testo è un estratto dal nuovo libro di Thomas Piketty, “Misurare il razzismo. Vincere le discriminazioni”, in uscita il 10 gennaio per La nave di Teseo

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