La Turchia sta vivendo un momento di estrema volatilità sulla sua valuta, dopo che il presidente Recep Tayyip Erdogan ha cambiato il terzo governatore in due anni – l’ultimo dei quali reo a suo singolare giudizio di avere alzato i tassi di interesse per raffreddare l’inflazione – aprendo così la porta a una fase di ribassi della lira turca. Ora la Banca centrale, gestita da Sahap Kavcioglu, ha reso illegale l’uso delle criptovalute come strumento di pagamento per l’acquisto di beni e servizi, pubblicando un regolamento nella Gazzetta ufficiale che mette fuori gioco tutti gli asset digitali basati su infrastrutture decentrate e quindi sfuggenti al controllo monetario dell’istituzione centrale.

Il significato

Per i risparmiatori turchi, preoccupati dall’inflazione galoppante a due cifre (16 per cento nell’ultimo mese) le criptovalute erano diventate una forma di protezione dal deprezzamento della lira.

Nel paese sul Bosforo si stava realizzando quella trasformazione del Bitcoin a “riserva di valore” che alcuni analisti economici vedono come evoluzione del percorso di maturazione della divisa digitale.

Pronta la reazione politica di Kemal Kilicdaroglu, il gandhi turco nonché presidente del Partito popolare repubblicano (Chp), principale formazione politica di opposizione laica e socialdemocratica al governo filo-islamico guidato da Recep Tayyip Erdogan, che ha criticato la decisione presa dalla Banca centrale di vietare l’utilizzo delle criptovalute per il pagamento di beni e servizi a partire dal 30 aprile.

In un messaggio sul suo profilo Twitter, Kilicdaroglu sottolineato che la decisione della Banca centrale è avvenuta «con il favore delle tenebre», osservando come ormai le istituzioni compiano le loro «follie» sempre di notte. Invece «prima di prendere tali decisioni occorre discutere con tutte le parti interessate», ha sottolineato Kilicdaroglu.

La decisione della Banca centrale turca di vietare l’utilizzo di criptovalute come i bitcoin per i pagamenti di beni e servizi giunge a seguito di un aumento dell’utilizzo delle criptovalute da parte dei cittadini turchi per proteggere i propri risparmi dall’aumento dell’inflazione e dal crollo della valuta turca.

La versione di Ankara

In una dichiarazione la Banca centrale ha smentito questa ricostruzione affermando che le transazioni effettuate attraverso l’uso di criptovalute presentano rischi “irrevocabili”.

Per l’istituto di credito centrale le criptovalute «non sono soggette ad alcun meccanismo di regolamentazione e supervisione né a un’autorità di regolamentazione centrale». Inoltre «i loro valori di mercato possono essere eccessivamente volatili». Infine per la Banca centrale le criptovalute vengono spesso utilizzate per azioni illegali.

Ma c’è di più.

Le autorità monetarie della Turchia hanno condotto negli ultimi due anni transazioni in valuta estera «alle condizioni di mercato» e nessuna banca o impresa ha ricevuto un trattamento «privilegiato».

Lo ha detto il governatore della Banca centrale turca, Sahap Kavcioglu.

Le dichiarazioni di Kavcioglu giungono in risposta sempre al primo partito di opposizione al presidente Erdogan, il kemalista Chp, che ha accusato anche con manifesti affissi nella grande città, il governo di aver «svenduto» 128,3 miliardi di dollari delle riserve della Banca turca tramite banche statali tra il 2019 e il 2020.

«Le transazioni di valuta estera in questione sono state condotte tramite piattaforme per le transazioni, nel quadro delle condizioni di mercato e dei prezzi di allora», ha ribattuto il neogovernatore. «Nessuna transazione privilegiata è stata compiuta con alcuna sezione, banca o impresa», ha proseguito.

La banca, ha aggiunto il governatore, ha siglato un protocollo con il ministero del Tesoro nel 2017 per coordinare gli acquisti e le vendite di valuta, che aveva contribuito a mantenere un equilibrio tra domanda e offerta sui mercati finanziari.

Il crollo

Ad aprile, le riserve lorde totali della Turchia, incluso oro e denaro detenuto dalla Banca centrale per conto di banche commerciali, è calato di più del 15 per cento dall’inizio dell’anno scorso, raggiungendo gli 89,3 miliardi di dollari.

Le riserve nette, tuttavia, erano pari il 9 aprile a 9,9 miliardi di dollari, il minimo dall’aprile del 2003.

I calvinisti islamici

La nuova strategia dell’opposizione secolarista del Chp sta puntando sulle contraddizioni sempre più evidenti dei gravi effetti economici che sta vivendo il paese cercando di dividere dopo 20 anni di “matrimonio” politico, i destini della nuova imprenditorialità anatolica (i cosiddetti “turchi neri” dell’interno in opposizione ai “turchi bianchi” cosmopoliti e urbanizzati) in cerca di sviluppo e stabilità dalla politica avventurista del partito di Erdogan.

Una imprenditorialità fatta di piccole e medie imprese chiamata le “Tigri anatoliche” che cerca un aggancio forte con l’Unione europea suo principale mercato di sbocco per le sue merci.

Questa Turchia affluente non può dimenticare la lunga stagione iniziata nel 2002 con l’ascesa al potere del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Erdogan.

Da allora il Pil è passato da 230 a oltre 800 miliardi di dollari, il reddito pro capite è balzato da 2.500 a 10mila dollari. Ma ora tutte queste conquiste sono in pericolo per le bizzarre decisioni in politica estera di Erdogan e per le conseguenti costose campagne in soccorso di alleati in Africa settentrionale, nel Caucaso, nei Balcani e in Ucraina.

Una conquista a rischio

Oggi le famose Tigri dell’Anatolia non ruggiscono più e fanno fatica a pagare le fatture dei fornitori.

La ricetta di immettere denaro nel sistema del credito, alle imprese e ai consumi, tenendo bassi i tassi di interesse ha raggiunto il suo limite con l’inflazione che erode i risparmi e la lira che perde valore. Il paese del Bosforo deve affrontare un deficit cronico delle partite correnti, cioè consuma più di quanto produce e i mercati lo sanno.

Le contraddizioni di fondo dell’Akp di Erdogan stanno venendo al pettine: dopo aver liberato negli ultimi vent’anni le forze sociali ed economiche alla base del boom economico della Turchia anatolica, una classe imprenditoriale chiamata per la sua dedizione al lavoro quasi maniacale da alcuni studiosi i «calvinisti islamici», oggi Erdogan sta diventando il freno di queste stesse forze che aveva guidato con successo e abilità nella sua marcia verso il potere.

Una classe borghese, liberista in economia e conservatrice in campo morale, esclusa per decenni dai kemalisti, eredi di Ataturk, dalle leve del potere, ma che ora, dopo vent’anni di potere di Erdogan potrebbe trovare nuove rappresentanze politiche che garantiscano la stabilità di cui ha bisogno magari con vecchi compagni di partito di Erdogan, come l’ex presidente della Repubblica Abdullah Gul, nato a Kayseri, più moderato e sensibile ai bisogni di una classe che vede mettere a rischio le conquiste appena ottenute.

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