Gaza, la partita della ricostruzione: il progetto palestinese anti Riviera

«Stiamo rimuovendo le macerie, vogliamo far tornare la gente nelle proprie case e rendere accessibili le strade a tutti il prima possibile», dice Maher Salem. Un lavoro complicato, perché la quasi totalità dei mezzi pubblici sono distrutti: «Parliamo di più di 184 camion, pale meccaniche e altri macchinari», aggiunge Salem, direttore generale del Dipartimento di pianificazione e investimenti della municipalità di Gaza City. «Oggi dipendiamo dai mezzi del settore privato». La sua voce è coperta dal rumore dei droni dell’esercito israeliano. «Nonostante la tregua, non hanno mai lasciato Gaza City», racconta. Salem ha 59 anni e una lunga carriera alle spalle. Dal 1996, ben prima che Hamas prendesse il potere, lavora nella municipalità di Gaza e ha ricoperto ruoli in tutti i principali dipartimenti tecnici. Oggi è uno dei referenti per la ricostruzione della città. «Sono un tecnico, non presto attenzione alla politica», tiene a precisare. Salem ha le idee chiare sul futuro della Striscia ed è disposto a collaborare con tutti gli attori in campo. Sa bene che al Cairo i paesi arabi-musulmani si stanno preparando alla ricostruzione di Gaza. Nei prossimi giorni ci sarà la prima grande conferenza sul tema che sarà co-presieduta anche dall’Italia. Per questo motivo in settimana l’inviato speciale nominato dalla premier Giorgia Meloni, Bruno Archi, è volato in Egitto con una delegazione per organizzare l’evento. Ognuno vuole la sua parte di introiti, sul piatto ci sono investimenti per circa 70 miliardi di dollari. L’Egitto vuole essere ripagato per il ruolo da mediatore nell’accordo tra Hamas e Israele e per aver ospitato oltre 120mila gazawi negli ultimi due anni, in cambio conta di inviare la sua manodopera nella Striscia. I paesi del Golfo vogliono strutture strategiche, così come la Turchia. E probabilmente sono quelli che si accaparreranno il maggior numero di appalti. Raji Sourani: «A Gaza ora serve tutto. Ma prima di tutto serve giustizia» Undici piani Per il momento ci sono almeno undici piani di ricostruzione che circolano nei palazzi dove si riuniscono decisori politici e istituzionali. E tra questi c’è anche Gaza Phoenix (Fenice ndr.), un progetto nato in maniera orizzontale nel novembre del 2023 e presentato per la prima volta quasi un anno fa. Dietro le quinte, qualcuno lo soprannomina il piano dei palestinesi. E piace a tanti. Le delegazioni internazionali e le Ong che entrano nella Striscia ne hanno prova. A Gaza City i membri della municipalità hanno messo in piedi un prefabbricato a cui hanno affissato dei pannelli del piano della Fenice, per farlo vedere a tutti. Vogliono che sia la matrice di tutti gli interventi perché lascia ai palestinesi un ruolo guida. E nel piano, Hamas non è stata coinvolta benché abbia parte del controllo politico nella Striscia. Per tredici mesi un gruppo di 700 persone composto da esperti e tecnocrati di livello, molti dei quali residenti all’estero, hanno lavorato giorno e notte alla realizzazione del piano. Il comitato di esperti è coordinato da Yara Salem, economista palestinese che ha lavorato nella Banca mondiale per vent’anni fino alle dimissioni date nel maggio 2024. Il piano è diviso in più fasi e si basa su tre macro aree di intervento: acqua, energia e housing. Un diplomatico per Gaza: tutte le carte di Meloni per fare affari nella Striscia Al progetto hanno collaborato anche gli studenti dell’università di Bir Zeit, in Cisgiordania. La Fenice vuole tenere la ricostruzione dentro dei principi etici e sostenibili, l’obiettivo è evitare un approccio neocoloniale o che si arrivi alla famosa Riviera pensata dall’amministrazione Trump. «Abbiamo dato ai comuni una metodologia per negoziare. Nel mezzo della guerra è già qualcosa. Ed è un punto da cui si può solo crescere», spiega Alessandra Gola co-fondatrice e chief architect del piano di ricostruzione Gaza Phoenix. Gola è italiana e da anni vanta una lunga esperienza di lavoro nei territori palestinesi occupati. A Domani spiega che la Fenice non è un piano concluso: «È un processo. Avrà edizioni successive, adattamenti, annessi che guardano in dettaglio singoli temi. Mentre molti altri piani arrivano con un’immagine finale preconfezionata, noi facciamo l’opposto: aiutiamo a costruire capacità locali e criteri negoziali». La vendetta biblica su Gaza: Israele ha creato un deserto Gola è consapevole che però le decisioni finali vengono prese fuori da Gaza: «Decidono gli Stati. Ci sono piani che arrivano con lobby enormi alle spalle. Noi lavoriamo con le comunità, che è la parte più fragile e allo stesso tempo più solida del sistema». «Siamo gli underdog della ricostruzione», dice scherzando. Non ci sono sponsor politici anche se tutti sono a conoscenza del piano, pure il governo italiano. «La Farnesina è stata informata di tutto fin dall’inizio ed è stata invitata al primo meeting internazionale della Expert communiti, organizzato all’università di Bari il 16 luglio», spiega Dino Borri docente presso il Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari che con l’università italiana si sta spendendo molto per il progetto. Tra le aule dell’università pugliese, infatti, sono stati ospitati incontri e meeting con i tecnici esperti che stanno lavorando al piano. A Maher Salem il piano piace e ne ha discusso anche con i vertici dell’Autorità nazionale palestinese. Due settimane fa c’è stata una riunione online con il ministro del Governo locale, Sami Ahmad Arif Hajjawi. «Abbiamo discusso con lui del piano. Speriamo di arrivare a un momento in cui saremo un’unica parte, non due», confida Salem. Ma è ancora presto per avere un quadro chiaro, molto dipenderà dal comitato di tecnocrati palestinesi che prenderanno in mano la governance futura di Gaza sotto il diktat del Board of peace che sarà presieduto da Trump. Il portavoce Unrwa: «Israele non ci fa consegnare gli aiuti. La Ghf è stata un fallimento» Titoli di proprietà Per ogni famiglia di Gaza c’è un bene prezioso più di ogni altra cosa. Un bene che hanno cercato di salvare a tutti i costi dai bombardamenti dell’Idf e tutelato a ogni sfollamento forzato: il certificato di proprietà. Documenti che saranno cruciali per la ricostruzione ed evitare che la Striscia diventi un terreno di contenzioso, che ci siano redistribuzioni improprie o espropri de-facto. «Il non-riconoscimento dei titoli di proprietà è storicamente una delle modalità attraverso cui l’occupazione ha acquisito terre», spiega Gola. Ma non sempre ci sono riusciti. Secondo i dati Onu più del 60 per cento della popolazione non possiede documenti che possano attestare il possesso della propria abitazione. Tuttavia, negli anni, le municipalità di Gaza si sono attrezzate per trarre in salvo gli archivi. D’altronde la guerra c’è sempre stata e a ogni ricostruzione sono emerse questioni relative ai titoli di proprietà. Negli anni, imparando dagli errori passati, la maggior parte dei documenti sono stati quindi digitalizzati. «Il catasto è stato salvato. Le municipalità hanno messo in cloud tutto ciò che era digitalizzato. Non tutto è andato perso», spiega Gola. Idf e coloni contro gli attivisti che aiutano gli agricoltori palestinesi: «Ci hanno aggredito e arrestato con accuse di terrorismo» Per i casi in cui i documenti fisici sono andati distrutti e non sono più reperibili – capita nei casi di famiglie disperse o di deceduti non registrati – ci sono soluzioni. «Ci affidiamo alle testimonianze locali, andiamo dal mukhtar (leader di famiglia ndr.) e se necessario facciamo anche perizie legali», spiega Maher Salem. In Medio Oriente ci sono esempi virtuosi in questo senso, come nel vicino Libano, in cui comunità rifugiate prive di documenti hanno ricostruito la mappa delle proprietà attraverso pratiche locali riconosciute. Gola sottolinea che non possiamo basarci su standard occidentali per contesti – come Gaza – dove spesso la proprietà non viene riconosciuta solo con timbri e registri. «Se c’è volontà, si può fare», conclude Gola.