Jair Bolsonaro sceglie le piazze imbandierate, i cori da osteria e gli altoparlanti a manetta, Luiz Inácio Lula da Silva preferisce i comizi nei palazzetti e i toni sobri. Dovrebbe essere il contrario, visto che il secondo è il maggior leader popolare in America Latina dai tempi di Perón, e il primo un ex grigio deputato improduttivo.

Ma Bolsonaro è costretto a recuperare, ha la potente macchina dello stato in mano e il denaro pubblico, mentre Lula dalla sua ha il tempo.

Mancano soltanto tre settimane al primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile, i sondaggi danno probabile la vittoria dell’ex operaio, due volte presidente, caduto nella polvere e risorto, mentre il leader in carica affanna in una rincorsa troppo lenta. Le lancette girano verso il 90esimo nel derby atteso da anni. Li abbiamo seguiti nelle strade di Rio de Janeiro nell’ultima settimana, ed ecco le loro strategie nella fase finale. Si vota il 2 ottobre.

Una corsa a due

Partiamo dai numeri. Al momento Lula ha il 45 per cento dei consensi (sondaggio Datafolha diffuso venerdì) e Bolsonaro il 34. Gli altri sono troppo indietro. Se Lula non arrivasse al 50 per cento dei voti validi, si andrebbe al ballottaggio.

È lo scenario più probabile. I numeri si muovono poco da mesi, anche se la forbice tra i due si sta riducendo. Bolsonaro è arroccato su quel terzo dell’elettorato che lo sostiene sempre e comunque su tutto, gli altri lo vogliono mandare a casa. Lula gioca tutto sulla saudade della sua presidenza (2003-2010) – boom della classe media e prestigio internazionale – ma quattro elettori su dieci lo considerano un ladro, o almeno uno che sulla corruzione ha chiuso entrambi gli occhi. La polarizzazione è inevitabile, e ha spazzato via qualunque ipotesi di terza via.

Il celodurismo

Mercoledì scorso, 7 settembre, cadeva l’anniversario di 200 anni dell’indipendenza del Brasile dal Portogallo. Una ricorrenza che avrebbe dovuto unire il paese – come ogni anno, è giorno festivo – è stata sequestrata dal presidente Bolsonaro a fini elettorali.

La programmazione è stata imbarazzante. Intuendo la trappola, alla sfilata militare a Brasilia nessuna alta carica dello stato ha risposto all’invito, nemmeno i suoi alleati più fedeli. A fianco di Bolsonaro c’erano solo militari, la moglie Michelle e l’imprenditore Luciano Hang, un proprietario di supermercati che veste sempre con una ridicola giacca verde e la cravatta gialla, come la bandiera nazionale, e fa la ola.

Punto alto della mattinata, il bacio alla moglie, un confronto di pessimo gusto con le consorti degli altri candidati e per finire l’invito al pubblico a lanciare un coro sulla sua (presunta) virilità.

Imbrochável, è una parola senza corrispettivo in italiano, significa colui che non fa mai cilecca. Un grande momento a metà tra Bossi e Berlusconi dei tempi d’oro, ma da presidente del paese e in una festa nazionale. Ai suoi sono luccicati gli occhi, tutti gli altri sono rimasti basiti. Non è un caso che nell’elettorato femminile lo svantaggio di Bolsonaro è drammatico: 20 punti percentuali. Celodurismo tropicale che non paga, difficile capire dove vuole arrivare.

Il golpe mancato

Da Brasilia Bolsonaro si è spostato a Rio de Janeiro dove ha raddoppiato la dose. Sul lungomare di Copacabana decine di migliaia di supporter lo hanno atteso, vestiti rigorosamente di giallo-verde.

La maglietta della Seleção, sacra in Brasile, è stata adottata dal bolsonarismo quattro anni fa, ed è forse l’operazione di marketing meglio riuscita all’estrema destra, contro la quale gli avversari nulla hanno potuto.

Il mix tra la festa nazionale con le pattuglia acrobatica, la giornata di sole e il fiume di bandiere con il nome dei candidati – si vota per tutto, in una sola domenica – ha regalato una giornata di buona esposizione per le residue speranze di Bolsonaro.

Copacabana era stracolma di gente. Liquidata rapidamente la parte ufficiale, Bolsonaro è saltato sul camion di una chiesa evangelica che lo appoggia e gli porta milioni di voti, e ha come al solito minacciato i giudici della Corte suprema e chiesto di «estirpare dalla vita pubblica» la sinistra.

Striscioni lungo la strada chiedevano intervento militare e chiusura del Congresso, ma gli estremisti di destra e i paranoici di sinistra sono rimasti delusi: il golpe più annunciato della storia ancora una volta non c’è stato.

Come Trump

Bolsonaro farà come Trump a Capitol Hill?”, si chiede in copertina l’Economist di questa settimana. Cioè non riconoscerà la sconfitta, mettendo in moto qualche forma di reazione non esattamente democratica?

Il gioco muscolare continuerà probabilmente fino all’ultimo giorno. Alla vigilia il figlio Eduardo ha fatto un appello ai possessori di armi affinché diventino «volontari di Bolsonaro». Poi ha spiegato che era solo un appello per aiutare nel proselitismo elettorale.

Gli scontri tra la presidenza e i giudici della Corte suprema sono pane quotidiano, con questi ultimi che cercano di arginare gli eccessi. Anche sull’evidente abuso di potere nella giornata dell’indipendenza. Ma è difficile che ci siano misure punitive prima del voto.

Basso profilo

È anche sulla base del cosiddetto “rischio democratico” che Lula spinge gli elettori a chiudere la partita al primo turno. Per evitare che le possibili accuse di brogli, alla Trump appunto, si trascinino per settimane dopo il voto di ottobre.

Ma l’ex presidente ha scelto una campagna di basso profilo. Vent’anni fa era capace di abbracciare centinaia di elettori uno a uno in strada, oggi preferisce eventi circoscritti.

C’è anche l’effetto età. Lula ha ormai 77 anni, la voce è sempre più roca. Anche se una delle immagini di freschezza della campagna è la presenza della nuova moglie Janja, sposata di recente dopo la morte della compagna di una vita, Marisa Leticia.

Effetto nostalgia

Per arrivare alla fatidica soglia del 50 per cento dei voti più uno, Lula rincorre in questi giorni i segmenti dell’elettorato che gli mancano. È forte nel nord est povero, tra le donne e i cattolici, ma Bolsonaro lo surclassa 51 a 28 per cento nel voto degli evangelici: in Brasile i pentecostali, soprattutto, sono una macchina da guerra. Eleggono deputati, senatori e sindaci in ogni angolo del grande paese.

Venerdì Lula era a São Gonçalo, nella grande periferia di Rio, dove le chiese cattoliche sono praticamente sparite, a rincorrere il voto evangelico. Il rosso, colore della sua lunghissima avventura politica, dominava sulle magliette dei fedeli-elettori, ma è sparito dallo scenario, anche perché il video del comizio andrà in tv negli spazi elettorali e sarà visto da molti milioni di persone.

I toni celesti significano pace, contro l’esaltazione delle armi da fuoco del bolsonarismo e Lula è in completo carta da zucchero. «Non si usa il nome di Dio per guadagnare voti!», si infiamma nel comizio.

E poi gli eventi dell’avversario «sembrano riunioni del Ku-Klux-Klan, sono tutti bianchi e reazionari», aggiunge. Nel centro sportivo di São Gonçalo ci saranno mille persone e fuori non c’è fila. Lula non vuole correre il rischio di convocare eventi di piazza, dove potrebbe perdere il confronto con il rivale.

Alle cafonate in moto e jet-ski di Bolsonaro sceglie di rispondere in modo subliminale: tutti mi conoscono e i brasiliani, soprattutto i più poveri, devono ricordare che durante la mia presidenza mangiavano carne tutti i giorni, perché l’economia andava bene. È in campagna elettorale dal giorno in cui ha lasciato la prigione, sollevato dalle accuse di corruzione, ma in pratica non fa campagna. Al momento sta funzionando, il vantaggio su Bolsonaro è ancora considerevole. Solo la partita dovesse proseguire al ballottaggio, e il margine stringersi, Lula dovrà inventarsi qualcos’altro.

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