Al fronte poveri e contadini: Putin “spreme” la provincia

La fermezza che Vladimir Putin mantiene nelle sue rivendicazioni riguardo al territorio ucraino deriva più dall’implicita intesa con Donald Trump che dalla forza d’inerzia della sua macchina bellica. Tre anni pieni di guerra, dove ogni metro quadro conquistato dalla Federazione russa è stato ampiamente coperto di sangue, fiaccherebbero qualsiasi esercito. Delle immagini di alcuni ucraini costretti loro malgrado a combattere, coscritti a forza, sono pieni i social occidentali. Interessa un po’ meno il destino della controparte russa, spesso deumanizzata e narrata alla stregua di un caterpillar inesorabile, mobilitato secondo propaganda per difendere il paese, come corpo unico, dalle tare occidentali: la crisi del maschio, il declino demografico, la droga, gli influencer, il nichilismo giovanile, la perdita della morale collettiva, eccetera. Tutte cose ugualmente diffuse in Russia. Rimane dunque sul campo una narrazione totalmente sbilanciata, che non dà conto della violenza, della crudeltà e del disinteresse con cui vengono mandati a morire nel Donbass tanti ragazzi russi e non russi. Di cifre assolutamente attendibili non è possibile parlare. I documenti ufficiali attestano più di 18mila condanne per diserzione dall’inizio del conflitto. Poi ci sono le stime dell’Intelligence ucraina (25mila in un solo distretto militare, quello centrale, tra novembre 2024 e luglio 2025), quelle dei think tank giornalistici – “Important stories”, in base a documenti trapelati dal ministero della Difesa della Repubblica Popolare di Doneck e a un altro elenco fornito dal progetto ucraino “Voglio vivere”, valuta che i ricercati siano più di 50mila – e quelle, recentissime, di alcune testate occidentali: ultimo in ordine di tempo, il britannico Times parla di 70mila defezioni. Quale che sia il numero reale, è sicuro che l’incidenza del fenomeno, con il prolungarsi della guerra, sia in crescita esponenziale. Chi tra i disertori russi ha parlato per esperienza personale, ha riferito che il fenomeno è talmente endemico, che difficilmente si processa un disertore al primo episodio. In questi casi, l’obiettivo delle strutture repressive interne è semplicemente trovare il fuggiasco e costringerlo a tornare a combattere. Se i fatti poi si ripetono, si rischiano mediamente oltre i cinque anni di carcere (la pena prevista per i famigerati articoli 332 e 337 e 338 del codice penale russo è fino a 10 anni; 15 anni in caso di stato di guerra). La linea del fronte decisiva è il mar Nero. E nello scontro non ci sono solo Russia e Ucraina Patriottismo o stigma A consultare le centinaia di testimonianze, emerge un dato paradossale. Le motivazioni per cui ci si arruola volontariamente o si risponde alla chiamata dello stato, non hanno quasi mai a che vedere con le ragioni che muovono il Cremlino alla guerra. Il patriottismo russo fa leva sullo stigma sociale rispetto al rifiuto del servizio militare (essere considerati “codardi” o “traditori”), sul desiderio di onorare i parenti morti in altri conflitti, sulle necessità economiche della famiglia (la paga è ottima per chi viene dalla sperduta provincia russa), sul riscatto personale, sull’illusione di trovare una comunità – l’esercito – in cui riconoscersi (soprattutto gli ex criminali), sulla semplicissima abitudine a rispettare la legge: «In vita mia non ho mai neppure preso una multa. Se qualcuno mi dà un foglio con un ordine governativo, non posso neppure immaginare di infrangere la legge» dice Ivan, nome di fantasia, intervistato da Sarah Topol per il New York Times Magazine (il reportage è ora libro). E allo stesso modo, quasi mai si scappa dal fronte – dove ormai sono morti più di 250mila soldati – per una presa di coscienza antibellica. I disertori fuggono per questioni di famiglia (genitori malati, questioni pendenti nel villaggio di provenienza, gelosia verso la moglie lasciata sola a casa), per disillusione, per non uccidere, per salvarsi individualmente la pelle. Per dare un’idea del contesto, sul diario che dal 25 settembre 2022, giorno della mobilitazione, tiene su VK (il Facebook russo) il ventenne Nikolai Kokšarov, si legge: «Entro in sala operatoria che ho perso il 40 per cento del sangue, sono cosciente, ho schegge dai talloni alle spalle e un polmone perforato. Se respiro il polmone mi brucia come se avessi mangiato peperoncino. Nel frattempo, il medico mi apre lo stomaco, cercando altre schegge. Mi portano a fare una radiografia. Esaminano tutto e dopo l'ultima iniezione mi si rizzano i capelli. Ricordo di essere portato fuori dalla stanza in sedia a rotelle e la vecchia infermiera che urla “Perché così, è ancora vivo!”». Kokšarov è un siberiano di Tomsk, regione di poco più di un milione di abitanti i cui dati sui mobilitati sono venuti in possesso del collettivo giornalistico “Important Stories”. Dei 2153 arruolati, 522 sono stati uccisi, dispersi o feriti al fronte. Dove l’accezione degli aggettivi associati alla parola “feriti” è molto singolare: l’85 per cento è infatti classificato come “lieve” o “moderato”, compresi quelli amputati di braccia e gambe. Accanto al dato che riguarda il 5 per cento dei disertori, ne emergono altri molto significativi. Nel capoluogo di regione, solo lo 0,5 dei riservisti è stato mobilitato. Nelle aree rurali questa percentuale è stata superiore di due volte e mezza. Conta poi il livello di istruzione: gli uomini con un'istruzione superiore sono stati mobilitati 14 volte in meno rispetto a quelli senza. Più di un terzo aveva precedentemente cercato lavoro come autista o operaio. Insomma, la guerra non la fanno certo i ricchi, e soprattutto non la fa la parte più inurbata e avanzata della società: da parte russa, al fronte muoiono 28,4 giovani uomini ogni 10mila se i mobilitati vengono dalla sperduta Buriazia, 1,4 se vengono da San Pietroburgo e 0,3 se vengono da Mosca (dati estratti in base al nome dei morti grazie a un’inchiesta della BBC e di Mediazona). Quel vuoto che Trump continua a chiamare pace La provincia martoriata Questo tributo di sangue della provincia è poi dato per dovuto: arrivano infatti dalla Transbajkalia – villaggi di Trubačevo, Novoširokinskj, Širokaja – diverse testimonianze di violenza della polizia militare verso le famiglie dei disertori. Le autorità considerano lecito rapire, picchiare, mettere sotto torchio i parenti dei fuggitivi per riavere quest’ultimi e rispedirli al fronte. La fame di uomini della Federazione russa è ormai senza fondo: l’ultima legge approvata in merito dalla Duma, a fine ottobre, prevede infatti che dal primo gennaio gli uffici di leva possano operare senza sosta tutto l’anno, dunque non solo, come avvenuto fino ad oggi, durante le tradizionali campagne stagionali di primavera e autunno. Ad oggi, in Russia, operano diverse organizzazioni che aiutano i coscritti che vogliono disertare. C’è la ong “Andate per il bosco” (Idite lesom, nota anche come “Get Lost”) che ha aiutato a disertare 2mila soldati e ha dato consiglio a più di 60mila persone. C’è poi la rete anonima online nota come Vyvožuk che salva singole persone soprattutto dai servizi segreti. Nel primo caso, l’aiuto è soprattutto a nascondersi entro il territorio russo, nel secondo invece è indispensabile uscire dal paese. Grande assente, anche in questo caso, l’Europa. I soggetti europei preposti a dare una mano ai russi che rifiutano le armi sono sostanzialmente burocratici e poco efficaci. Il riconoscimento dei diritti di migrare ai russi che non vogliono vivere in Russia o che sono invisi alle sue strutture repressive è tutt’altro che automatico. Anzi, nei Paesi Baltici e altrove ciò rappresenta un problema. Insomma, la guerra ibrida da parte europea non sta nemmeno nei pensieri. Asset russi, Putin ora minaccia ritorsioni sull’Ue. E Trump fa pace con la Bielorussia