All’indomani della Seconda guerra mondiale, gli stati vincitori del conflitto (Stati Uniti in testa) si sono trovati nella necessità di rifondare l’ordine internazionale. L’obiettivo primario era la costituzione di un sistema di sicurezza collettiva che fosse in grado di prevenire i conflitti o di intervenire al fine di evitare che degenerassero, in modo da impedire che il mondo potesse ricadere in una guerra simile a quella devastante appena conclusasi. Per fare ciò era indispensabile fondare un’organizzazione mondiale che, pur mantenendo punti di contatto con la defunta Società delle nazioni, potesse superare i limiti evidenti che ne avevano determinato il fallimento.

Nacque così, con la Conferenza di San Francisco conclusasi nel giugno 1945, l’Organizzazione delle Nazioni unite, il cui perno è costituito dal Consiglio di sicurezza, organo cui è conferita la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

Le caratteristiche

Esso è basato su alcuni principi molto semplici: fin dalle origini, l’organo doveva essere rappresentativo dell’intera membership, la quale nel corso degli anni sarebbe divenuta pressoché universale, ma allo stesso tempo avere natura ristretta, onde non ne fossero impedite l’efficienza e l’efficacia.

Al contempo, esso doveva coinvolgere le maggiori potenze, identificate allora nei “cinque grandi”, vincitori della Seconda guerra mondiale (o cooptati fra gli stessi), vale a dire Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Unione sovietica e Repubblica di Cina. Doveva disporre di poteri molto ampi, potendo sia imporre agli stati membri dell’Onu l’adozione di misure non implicanti l’uso della forza (le cosiddette “sanzioni”), sia intervenire militarmente, con forze prestate dagli stati membri, laddove fosse necessario (nella realtà, poi, il Consiglio non sarebbe intervenuto direttamente, ma avrebbe, in alcune limitate occasioni, delegato l’uso della forza agli stati, come nel caso della guerra contro l’Iraq del 1991).

Doveva, inoltre, decidere a maggioranza, perché la regola dell’unanimità avrebbe potuto ostacolarne l’azione. L’unanimità era peraltro richiesta fra i membri permanenti, cioè fra i cinque grandi, disponendo ciascuno di essi di un potere di veto, atto a paralizzare qualunque delibera non meramente procedurale.

Critiche e spinte riformatrici

Già nel corso dei primi anni di vita dell’organizzazione, alcune di queste caratteristiche sarebbero state oggetto di critiche e di proposte di riforma. Fin dalla fondazione, il potere di veto dei grandi risultava ostico alla grande maggioranza degli stati. Con l’espandersi dell’organizzazione, poi, la composizione del Consiglio risultava sempre più elitaria, e cresceva pertanto la spinta a un allargamento dell’organo: in effetti l’unica riforma significativa del Consiglio di sicurezza avrebbe visto, in piena decolonizzazione, nel 1963, l’aumento da undici a quindici seggi (passando da sei a dieci quelli non permanenti, rinnovati ogni due anni dall’Assemblea generale: la riforma sarebbe entrata in vigore nel 1965).

L’ulteriore espansione della membership, in particolare con la fine della Guerra fredda, avrebbe peraltro ravvivato le richieste di ampliare la composizione del Consiglio. Infine, con il passare dei decenni, il privilegio congelato dei cinque grandi sarebbe parso sempre più anacronistico, mentre nuove potenze regionali reclamavano un posto di primo piano e pareva sempre più inaccettabile l’esclusione dal club dei grandi dell’intera Africa e di gran parte dell’Asia.

Che dire di queste critiche e di queste spinte riformatrici? Non c’è dubbio che il Consiglio non sia adeguatamente rappresentativo della membership attuale dell’organizzazione; va peraltro anche tenuto conto del fatto che un organo troppo ampio sarebbe appesantito e ostacolato nel suo funzionamento, che richiede agilità, tempestività, decisione.

È altresì indubbio che il club dei cinque grandi non sia oggi una fotografia credibile dei rapporti di forza esistenti: ci si può chiedere infatti perché Parigi e Londra debbano continuare a contare di più rispetto a New Delhi, Berlino, Tokyo, Brasilia o altre capitali, ma va comunque tenuto presente che i cinque permanenti sono anche potenze nucleari (anche se non sono più le sole).

Il club, va precisato, non è rimasto immutato: nel 1971 la Cina popolare è subentrata alla Cina nazionalista, cioè a Taiwan, dopo che l’Assemblea generale aveva riconosciuto i delegati della prima quali rappresentanti della (unica) Cina, espellendo i delegati della seconda e così di fatto escludendo Taiwan dalla vita delle Nazioni unite (nodi che, prima o poi, vengono al pettine…); nel 1991 la Federazione russa poté occupare, senza opposizioni, il seggio fino ad allora occupato dall’Unione sovietica.

Il veto, poi, è ampiamente discutibile, ma non dimentichiamoci che poggia su un assunto difficilmente contestabile: quello per cui le grandi potenze sono disposte a impegnarsi per mantenere la pace (compito che può solo riposare sulle loro forze, innanzitutto in termini economici e militari), soltanto in cambio di una fetta di potere nella gestione dell’ordine mondiale. In altre parole, il mantenimento dell’ordine globale non può che fondarsi sul coinvolgimento e sull’accordo fra le maggiori potenze. Qualunque visione alternativa rischia di essere pura utopia.

Il rischio paralisi

Tutto ciò ha un prezzo, e ce l’aveva fin dal 1945: il sistema di sicurezza collettiva avrebbe potuto funzionare, e dunque il Consiglio avrebbe potuto mantenere l’ordine e la pace nella società internazionale, solo se i cinque grandi avessero operato in uno spirito di concordia e collaborazione. Se fosse emersa una frattura fra i membri permanenti, o se la minaccia alla pace, la violazione della pace o l’aggressione fosse provenuta da un membro permanente o da un suo stretto alleato, il meccanismo si sarebbe inceppato, dal momento che è evidente quanto un sistema così concepito non possa operare contro gli interessi di un membro permanente.

Tali condizioni sono parse verificarsi solo per un breve periodo dopo la fine della Guerra fredda, cioè negli anni successivi al 1989, quando il Consiglio è intervenuto sulla scena mondiale con più efficacia, pur con esiti di volta in volta discutibili e potendo svolgere un ruolo circoscritto in crisi, quale quella jugoslava, in cui le tensioni fra le grandi potenze riemergevano in tutta la loro evidenza.

Prima di ciò, dal primo dopoguerra fino alla caduta del Muro, il Consiglio di sicurezza era rimasto pressoché paralizzato dalla Guerra fredda fra le due superpotenze. Aveva sì sponsorizzato la guerra di Corea, ma solo perché in quel periodo, nel corso del 1950, l’Unione sovietica si era assentata per protesta dalle sedute dell’organo (e avrebbe continuato a contestare la legittimità delle delibere adottate in sua assenza). Al di là di questo caso, il Consiglio aveva però potuto svolgere un’azione limitata e confinata alle crisi secondarie, relativamente alle quali gli interessi degli Usa o dell’Urss non fossero troppo coinvolti.

Il Consiglio oggi

Siamo tornati, negli ultimi anni, già da ben prima del conflitto ucraino in corso, a una fase analoga: possiamo dire che il canto del cigno sia stata l’autorizzazione del discusso intervento della Nato in Libia nel 2011. Dopo di allora, il Consiglio è stato pressoché irrilevante nella tremenda crisi siriana; irrilevante a fronte dell’occupazione e annessione della Crimea del 2014; irrilevante nella crisi del Donbass. Così come oggi è irrilevante a fronte della peggior guerra scoppiata in Europa dopo il 1945.

L’organo, intendiamoci, è ancora attivo e funzionante: si riunisce di frequente, coordina poco meno di quindici operazioni di mantenimento della pace – operazioni militari (e non solo) di carattere limitato in aree di crisi – e poco meno di quindici regimi di sanzioni adottate contro stati ritenuti responsabili di minacciare la pace o contro le rispettive leadership, o reti terroristiche internazionali. Ma è un paradosso che sfuggano alle sue grinfie i principali aggressori (in questo momento la Russia) così come operino al di fuori del suo controllo i più imponenti regimi di misure restrittive messi in piedi dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dai loro alleati.

Se oggi non è scoppiata la Terza guerra mondiale, lo dobbiamo alla minaccia nucleare (il che non contribuisce a nobilitare questa tragica spada di Damocle sempre incombente), non al Consiglio di sicurezza.

Tale situazione, a meno di stravolgimenti oggi non prevedibili, non è destinata a mutare; anzi, laddove nuove crisi dovessero scoppiare più a oriente, ad esempio intorno a Taiwan, la paralisi sarebbe solo destinata ad aggravarsi.

Una nuova architettura?

Come rispondere a questa crisi? Una riforma, passando attraverso le procedure della Carta, è impossibile, perché sarebbe, anch’essa, paralizzata dal veto dell’una o dell’altra potenza. Si è ipotizzato di escludere la Russia dal Consiglio (o dall’Onu), con una delibera dell’Assemblea che, senza riformare la Carta, rilevi l’illegittimità dell’occupazione russa del seggio attribuito all’Unione sovietica o disconosca le credenziali dei rappresentanti russi. Ma, anche ammettendo che l’ipotesi fosse praticabile, avrebbe un senso? A parte il fatto che non risolverebbe la questione dei rapporti con la Cina, una mossa di questo tipo tenderebbe a trasformare le Nazioni unite in un club delle democrazie occidentali: si pensa veramente che il mondo possa essere oggi governato da un’associazione di questo tipo?

Le Nazioni unite hanno difetti giganteschi, primo fra tutti la constatata irrilevanza del loro sistema di sicurezza collettiva. Ma sono l’unico foro universale, nel cui ambito tutti gli stati del mondo, senza distinzioni, possono confrontarsi. È poco, ma cerchiamo almeno di preservare questo poco. Ed evitiamo di lasciarci sedurre dall’idea che una nuova architettura istituzionale possa, da sola, rimediare alle fratture di un mondo attraversato da fratture profonde.

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