Domanda provocatoria: ma se Nato e occidente tengono al “diritto all’autodeterminazione dei popoli” al punto da bombardare i palazzi di una nobile (anche se politicamente scomoda) capitale come Belgrado per aiutare il piccolo, coraggioso (e islamico) Kosovo a diventare indipendente, come mai l’occidente condanna la piccola e coraggiosa Crimea quando si vuole staccare dalla nobile e ugualmente sgomitante Ucraina, a cui era stata appiccicata dal partito comunista sovietico nel 1954 quasi per errore?

E perché quando Croazia e Slovenia vogliono l’indipendenza si scomodano per loro il papa e la Germania, ma se le umili Abkhazia e Ossezia hanno la stessa ambizione nei confronti della Georgia non si scomoda neppure San Marino? Perché noi giornalisti abbiamo (e giustamente) versato i proverbiali fiumi d’inchiostro per testimoniare quanto la Bosnia era diversa dal resto della Jugoslavia, ma non troviamo un matitino spuntato per notare che l’est dell’Ucraina ha una storia, una geografia e una psiche più russa di quella di Tolstoj?

E come mai chiamiamo l’imperatrice Caterina “La Grande” per avere (anche) conquistato la Crimea secoli fa, ma quando l’attuale imperatore Vladimir fa il bis nel 2014 l’aggettivo Grande non viene usato neppure da profeti del Cremlino come Al Bano?

Combattenti per la democrazia, fermate la querela. Non sono interrogativi di parte o filo-russi. La tecnica dei due pesi e due misure ha origini antiche e nessuno ne è immune, a partire da Mosca. Quando si tratta di compilare una mappa e tracciare dei confini politici, poi, è la tecnica più usata, perché ci illude di fissare su carta anche ciò che è inafferrabile o complicato.

donbass russia putin

Un conflitto stratificato

Prendiamo il Donbasss, la regione industrial-carbonifera dell’Ucraina orientale, vecchio cuore industriale dell’Unione Sovietica poi impoverito, dove si sta riaccendendo un conflitto che si era preso una pausa di riflessione. Il nome significa “bacino del fiume Donec” (un affluente del più famoso e lungo fiume Don). Il conflitto è stratificato sia al proprio interno che all’esterno: dentro ci sono le repubbliche secessioniste di Doneck e di Lugansk aiutate da Mosca, le milizie semi-fasciste aiutate da Kiev, i mercenari stranieri (anche italiani), i parà russi senza mostrine, persino il tragico abbattimento di un aereo commerciale malese con a bordo 298 persone scambiato dai miliziani filo-russi per un jet militare ucraino. All’esterno è collegato alla crisi della vicina Crimea, la penisola dove Cavour mandò i fratelli generali Alfonso e Alessandro La Marmora a combattere contro la zar al fianco della Francia, sperando di ottenere il suo consenso quando si sarebbe trattato di unificare l’Italia. Un’avventura che ha lasciato il segno: nelle città italiane abbiamo ancora via Cernaia, corso Sebastopoli, via Balaclava…

Una terra stregata

«Ah, le bellezze della Crimea sono tali e tante che non posso neppure descrivertele! È un Eden dove insieme fonderemo una nuova civiltà», si sdilinquiva nel 1783 il colto e ambizioso principe Potemkin con la sua amata, amante e sovrana Caterina, prima di cacciare gli abitanti tartari (musulmani, discendenti di Gengis Khan e troppo ossequiosi nei confronti del vicino impero ottomano) e rimpiazzarli con gli adorati cosacchi, biondi, ruvidi e bravi contadini. Poveri tartari, viene da pensare. Peccato che i turco-mongoli della leggendaria Orda d’Oro non fossero indigeni della Crimea: anche loro erano arrivati senza invito, scavallando i confini altrui.

Potemkin, infatti, non era stato il primo a innamorarsi di questa terra stregata. Greci, bizantini, veneziani, genovesi: la Crimea era stata per secoli l’amante un po’ lasciva di tanti pretendenti. Per scoraggiarne il ritorno, Potemkin vi aveva costruito un porto militare (Sebastopoli) e piazzato una flotta (è ancora lì oggi), anche perché guardando alla mappa geografica si era reso conto che chi controllava la Crimea controllava il Mar Morto, e chi controllava il Mar Morto controllava l’accesso marittimo all’oriente (già, non c’era ancora il Canale di Suez).

Il pezzo era rimasto così pregiato che due secoli e diversi assedi più tardi (uno famoso anche da parte dei nazisti), il leader sovietico Krusciov – guarda caso un russo nato e cresciuto nel Donbass di confine russo-ucraino – l’aveva regalato all’Ucraina sovietica con un “gesto personale”, una sorta di patto di sangue per celebrare il trecentesimo anniversario del trattato di Pereyaslav, che oggi nessuno ricorda ma che a modo suo aveva cambiato la carta d’Europa. Il trattato, infatti, aveva vincolato l’Ucraina all’impero russo a est, invece che a Germania Polonia e Lituania a ovest. Un regalo, quello di Krusciov, basato sull’idea che poiché tutto restava in casa (Urss) e poiché la casa sembrava indistruttibile (sempre l’Urss), sarebbe stato un gesto politicamente a buon mercato, ma simbolicamente fortissimo.

Errore clamoroso. Sciolta l’Urss, prima l’Ucraina è rimasta al fianco di Mosca (anche perché per sopravvivere ha bisogno del gas russo), ma poi ha iniziato a flirtare con l’Europa e con la Nato. Si è rifiutata di “restituire” la Crimea ai russi, ha assistito impotente al declino economico del Donbass carbonifero popolato da operai di lingua, tradizione e spesso anche passaporto russo. E in una terra di confine dove in passato se eri ucraino eri perseguitato dalle carestie, da Stalin o dai discendenti dei cosacchi, ha cercato di compensare, imponendo la propria identità nazionale e la bandiera giallo-celeste.

Un atlante diverso

Il resto è cronaca. Per disfare la mappa geografica pasticciata da Krusciov e per solleticare il patriottismo nazionale, Putin ha tramato, invaso e infine organizzato un plebiscito dove il 95 per cento degli abitanti della Crimea ha votato per il rientro nella Madre Russia. Senza citare il Kosovo o l’ex Jugoslavia, Mosca ha fatto capire che «chi di diritto all’autodeterminazione dei popoli ferisce, poi di diritto all’autodeterminazione perisce…», ecc. L’Ucraina ha risposto chiudendo quasi del tutto il rubinetto di un canale di cui tutti si erano dimenticati: il canale artificiale è quello che porta acqua alla Crimea in nome della fratellanza sovietica, ma come ha scoperto recentemente il New York Times, una sorta di diga costruita con decine di migliaia di sacchi di sabbia lo blocca al livello del confine. Da lì non passa una goccia.

All’improvviso la questione della Crimea è quindi diventata anche la questione del Donbass. I russi, infatti, sin dal Settecento hanno in mente una carta geografica d’Europa che è diversa da quella dell’atlante che abbiamo in casa. Il loro atlante dice che se la Crimea è russa, lo è anche il Donbass, perché è una delle terre sacre dei cosacchi del Don e quindi sta al centro della Russia così come il Colosseo sta al centro di Roma. I cosacchi occupano un posto speciale nell’immaginario collettivo russo. Sono quelli che hanno raddoppiato i territori russi sconfiggendo i turchi, accompagnato Potomkin sul suo letto di morte in mezzo alle steppe, protetto gli zar con la guardia imperiale, respinto Napoleone nella battaglia di Borodino, bivaccato a Parigi sulle rive della Senna nel 1814, fermato i nazisti a Belostock e a Stalingrado e persino staccato la Transnistria russofila dalla Moldavia nel 1992. A Lugansk, una delle città separatiste dalla Ucraina, c’è un monumento al cosacco ignoto che dice semplicemente «dedicato ai figli dell’onore e della libertà».

L’Unione Sovietica non amava i cosacchi, anzi li perseguitava. A volte qualcuno scambia Putin per una versione moderna dei gerarchi sovietici. Ma questa vicenda dimostra che nonostante i suoi passati nel Kgb, Putin non vuole la restaurazione dell’Urss, vuole di più: una Russia pre-sovietica, forse imperiale, alla Potemkin non alla Krusciov. E ne ha in mente la relativa carta geografica. Purtroppo per l’Ucraina, terra da sempre a metà strada tra est e ovest, quei confini passano anche lungo il fiume Donec.

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