Il 17 febbraio la Francia e i suoi partner europei hanno annunciato il ritiro delle operazioni militari anti jihadiste “Barkhane” e “Takuba” in Mali. Il motivo ufficiale è il deterioramento dei rapporti tra Parigi e la giunta militare maliana a seguito dei due colpi di stato del 2020 e del 2021. «Non possiamo rimanere militarmente impegnati al fianco di autorità di fatto con le quali non condividiamo né la strategia, né gli obiettivi nascosti», ha detto il presidente Emmanuel Macron. Ma il vero punto di rottura sembra essere stato l’arrivo sul suolo maliano dei primi mercenari russi della compagnia paramilitare Wagner alla fine del novembre 2021. Da metà settembre il ministro della Difesa tedesco, A. Kramp-Karrenbauer, è stato il primo a comunicare questo avviso a Bamako: «Se il governo del Mali concludesse tali accordi con la Russia, contraddirebbe tutto ciò che Germania, Francia, Unione europea e Nazioni unite hanno fatto in Mali per otto anni».

Il giorno successivo il ministro degli Esteri francese, Le Drian, ha convenuto: «Se per caso il colonnello Goïta, presidente ad interim del Mali, intendeva reclutare la compagnia Wagner, ovviamente è incompatibile con la presenza internazionale in Mali».

In altre parole, per Parigi e Berlino la scelta è esclusiva: o noi o i russi della Wagner. Una logica di sfere di influenza che ricorda quella che, simmetricamente, anima l’“operazione Z” contro Kiev. Se è vero che l’accordo tra Unione europea e Ucraina del 2014 vanifica il grande progetto di unione economica eurasiatica della Russia, non è meno evidente che il rafforzamento dell’influenza russa nel continente africano sfida apertamente la “nuova strategia europea per l’Africa” ​​che la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen si è impegnata a rendere una delle sue priorità. Una strategia, che, in realtà, non è così “nuova”, ma appare, senza ammetterlo, in linea con i vecchi sogni eurafricani dei “padri dell’Europa”.

Entità euroafricana

Come l’“eurasianismo” concepito nei circoli intellettuali dell’emigrazione russa, l’idea euro-africana risale agli anni Venti del Novecento. Le classi dirigenti europee capiscono che, piuttosto che continuare a competere per la spartizione coloniale dell’Africa, avrebbero fatto meglio a unirsi per sfruttare le sue risorse e i suoi mercati. Questo calcolo ricalca quello del fondatore del movimento paneuropeo, R. Coudenhove-Kalergi, la cui visione di un’Europa unificata (Paneuropa), comprendente tutta l’Africa (ad eccezione dei possedimenti britannici e dell’Etiopia) nella sua sfera geopolitica, ha fortemente influenzato gli architetti della costruzione europea, come i francesi J. Monnet e R. Schuman o il tedesco K. Adenauer.

Ma la formazione di una grande entità euroafricana nasce anche dall’idea schmittiana, secondo cui il Reich tedesco avrebbe dovuto avere, come gli Stati Uniti, una propria “dottrina Monroe”. Sappiamo anche da fonti attendibili che dopo la sconfitta francese del giugno 1940 lo stesso Hitler considerò seriamente il progetto geostrategico di un “blocco euroafricano opposto al blocco formato dal nord America e dall’America”, ma anche all’Unione sovietica con la quale lui e Ribbentrop speravano ancora di trovare un “compromesso spaziale”.

Fu il rifiuto di Stalin di rinunciare alle tradizionali direzioni di espansione della Russia verso lo Stretto e il Mediterraneo che fece precipitare la decisione tedesca di invadere l’Urss, con le conseguenze che sappiamo. Tuttavia, l’idea euroafricana non solo sopravvisse al Reich di Hitler, ma apparve, più che mai dopo la Seconda guerra mondiale, come l’ultima possibilità per l’Europa di imporsi come una “terza potenza” tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Come disse molto bene l’ex combattente della resistenza olandese, H. Brugmans, primo presidente dell’Unione dei federalisti europei (Uef), nel 1948: «Se noi [europei] vogliamo ricostruirci, abbiamo urgente bisogno di uno “spazio vitale” – se mi permettete l’espressione – su una scala più ampia di quella delle vecchie nazioni cosiddette autonome».

Tanto ricco di risorse naturali quanto scarsamente popolato, il continente africano sembrava allora destinato a diventare il far West dell’Europa, o addirittura, secondo il diplomatico francese E. Labonne, l’equivalente europeo della Siberia per la Russia: «Per noi, per l’Unione francese, per l’Unione europea, l’Atlante deve rappresentare gli Urali e l’Africa la Siberia».

Dalle idee immaginarie alla realtà, un passo decisivo fu compiuto con il Trattato di Roma, che, nel 1957, “associava” le colonie degli stati membri del mercato comune. Per perpetuare la sua presenza in Africa, la Francia, principale potenza coloniale dell’Europa continentale, ha scelto di aprire la sua sfera imperiale ai suoi partner europei e, in particolare, alla Germania.

Nonostante il processo di decolonizzazione dell’Africa in pieno svolgimento all’inizio degli anni Sessanta, questa associazione con la Cee non solo è stata mantenuta dalle ex colonie francesi, belghe e italiane nel quadro della Convenzione di Yaoundé (1963), ma si è estesa alla maggior parte degli stati dell’Africa subsahariana attraverso gli accordi che hanno successivamente sostituito Yaoundé fino a oggi: la Convenzione di Lomé (1975-2000), l’Accordo di Cotonou (2000-2020), poi un nuovo accordo post-Cotonou siglato nell’aprile 2021. In questo senso ha preso forma il concetto di “eurafrique”, anche se il termine, con sfumature colonialiste, ha ceduto nel discorso a formule più consensuali: «Alleanza Africa-Europa» (J.-C. Juncker), «nuova strategia globale con l’Africa» (U. von der Leyen), o anche, «rinnovata partnership tra Africa ed Europa» (Ch. Michael). Il settimanale britannico Economist non si è lasciato ingannare, titolando maliziosamente la sua edizione del 22 settembre 2018: The rebirth of Eurafrica.

Il “grande ritorno” di Mosca

Tuttavia, se l’Unione europea può vantarsi di essere sia il principale investitore di capitali in Africa sia il suo principale partner commerciale, è ben lungi dal poter impedire ad altre potenze di penetrare in ciò che considera una sua riserva. Quindici anni fa, la principale preoccupazione degli europei in generale, e dei francesi in particolare, era la crescente concorrenza economica della Cina in Africa.

«Giorno dopo giorno, dai patti di amicizia agli accordi di cooperazione, dai prestiti a tasso zero ai contratti operativi, Pechino sta soppiantando Parigi, Londra e Washington nei ministeri africani e talvolta nei cuori», avvertono gli autori di un libro che ha avuto un notevole impatto nella Francia degli anni di Sarkozy.

Questo tema non ha perso attualità, soprattutto dopo l’inaugurazione, nel 2017, di una base navale cinese a Gibuti. Tuttavia, è quello che viene presentato in tutte le lingue europee come il “grande ritorno della Russia in Africa” (Rußlands Rückkehr nach Afrika) che oggi occupa il primo posto delle priorità.

Parlare di “ritorno” è un modo per ricordarci che Mosca non è una nuova arrivata nell’arena africana. Attingendo alle lontane memorie del Congresso di Baku del 1920, l’Unione sovietica godette di notevole prestigio al tempo dell’indipendenza con un certo numero di movimenti di liberazione e leader nazionalisti africani, come Nasser (Egitto), Nkrumah (Ghana), Sékou Touré ( Guinea) o Keïta (Mali).

Per realizzare le speranze che gli araldi del terzomondismo fondarono poi sull’Urss, basterebbe poi citare I dannati della terra di Frantz Fanon (1961): «Forti dell’appoggio incondizionato dei paesi socialisti, i colonizzati si lanciano con le armi che hanno contro l’inespugnabile cittadella del colonialismo. Se questa cittadella è invulnerabile ai coltelli e ai pugni scoperti, non lo è più quando si decide di prendere in considerazione il contesto della Guerra fredda».

In realtà, Krusciov e i suoi successori, che avevano appena represso la rivolta ungherese del 1956 con brutalità coloniale, erano meno preoccupati di liberare l’Africa dall’imperialismo che di sfruttare la decolonizzazione per cercare di aggirare la strategia di contenimento attuata dagli Stati Uniti in tutto il Rimland eurasiatico. In cambio di vendita di armi, assistenza e consiglieri militari e tecnici ai suoi clienti africani, l’Urss cercò soprattutto di aumentare le proprie capacità strategiche ottenendo basi aeree o navali, come a Conakry, Luanda, Berbera o, più tardi, nell’arcipelago di Dahlak. Una politica di influenza non sempre in linea con la strategia “foquista” dell’alleato cubano, volta a creare centri di lotta armata in tutto il mondo: «Due, tre, diversi Vietnam», come disse Guevara nel suo famoso messaggio Tricontinentale (1967).

Così, nel 1975, fu l’operazione Carlota, decisa da Castro senza l’approvazione di Breznev, a costringere i sovietici a farsi coinvolgere loro malgrado nella guerra civile angolana. Tanto più che la Cina maoista, che allora finanziava la costruzione della linea ferroviaria “Tanzam” tra Dar es Salaam e Kapiri Mposhi, era già in agguato, sempre pronta ad accusare Mosca di «imperialismo per associazione» con Washington.

Quattro decenni dopo, la situazione è ideologicamente meno confusa: sono finiti i giorni in cui Pechino co-sponsorizzava insieme a Pretoria gli anticomunisti angolani di Unita e in cui Margaret Thatcher pensava di aiutare i ribelli “marxisti-leninisti” eritrei per destabilizzare il regime filo-sovietico di Mengistu. Se la Russia sta facendo il suo “grande ritorno” in Africa è principalmente perché il capitalismo russo ha beni e capitali da esportare lì.

Sebbene sia classificata al sesto posto tra i partner commerciali dell’Africa, si dice che la Russia abbia esportato circa 12,5 miliardi di dollari di merci nel continente nel 2020: principalmente armi, cereali e prodotti agricoli. Quanto agli investimenti russi in Africa, sono stati stimati in 5 miliardi nel 2018, in particolare nei settori metallurgico e minerario (uranio, bauxite, oro, platino, diamanti, ecc.), ma anche nella cooperazione nucleare o degli idrocarburi. Una cifra, certo, molto modesta rispetto ai 266 miliardi che vi hanno investito i paesi dell’Ue lo stesso anno, ma che è più che sufficiente per spiegare l’arrivo delle società di sicurezza private russe che tanto ha sconvolto gli europei.

Proprio come la francese Areva (ora Ora-no), i cui siti minerari in Niger sono stati oggetto di prese di ostaggi o più volte di attacchi negli anni 2010, i gruppi industriali russi cercano di mettere in sicurezza le loro attività, sia ricorrendo direttamente alla protezione di questi gruppi paramilitari, o indirettamente attraverso l’assistenza di “consiglieri” per la sicurezza alle autorità locali.

Le conseguenze dello stallo francese

Non sorprende che la geografia degli interessi economici russi in Africa ricordi molto quella della presenza sovietica al suo apice negli anni Settanta: nord Africa, Africa di lingua portoghese, Africa meridionale, Corno d’Africa. Niente illustra meglio questa continuità della traiettoria personale del vice primo ministro russo e presidente del Consiglio di amministrazione del gruppo petrolifero Rosneft, Igor Setchin, ex interprete militare del portoghese in Mozambico e in Angola negli anni Ottanta.

L’elemento nuovo è la significativa svolta dei russi nell’Africa francofona, dalla quale, con poche eccezioni, l’influenza sovietica era stata rimossa durante la Guerra fredda. Non solo dalla Cia, il cui coinvolgimento nel colpo di stato del 1960 contro P. Lumumba (primo ministro dell’ex Congo belga sospettato di riavvicinamento con Mosca) non ha più bisogno di essere dimostrato, ma ancora e soprattutto dalle reti del gollista J. Foccart, per mezzo del quale Parigi, forte del controllo indiretto delle sue ex colonie, intendeva ricoprire il ruolo di “gendarme d’Africa”. Con, ovviamente, fortune variabili, come nel 1974 in Benin, dove la Francia fallì miseramente nel rovesciare il cosiddetto regime “marxista” di Kérékou.

Una battuta d’arresto prontamente compensata, però, dai buoni rapporti che il governo Giscard e la compagnia petrolifera Elf hanno instaurato stabilmente, dal 1977, con l’astro nascente della “Repubblica popolare” del Congo-Brazzaville, D. Sassou-Nguesso.

La recente intrusione della Russia nel cortile di casa francese – in particolare nella Repubblica Centrafricana dove gli “istruttori” russi hanno simbolicamente stabilito la residenza nell’ex palazzo di Bokassa – è indicativa di un certo affanno della Françafrique, o anche dei limiti della Francia nella sua capacità di assicurare la difesa degli interessi dell’Europa nel solo continente africano? La domanda si pone anche a Parigi, dove molte voci deplorano che l’“europeizzazione” dell’intervento nel Sahel voluta da Macron sia arrivata troppo tardi.

Quel che è certo è che la politica africana della Russia sfrutta con il suo consueto opportunismo una situazione che la Francia ha largamente contribuito a creare. Senza riaprire il discorso sulle cause della debolezza congenita degli stati franco-africani, è chiaro con il senno di poi che la destabilizzazione del Sahel a seguito dell’attacco sarkozyista del 2011 in Libia abbia aperto una strada ai russi. Vigile del fuoco incendiario, la Francia si è quindi rivelata impotente a controllare l’incendio che essa stessa ha causato.

Peggio ancora: la presidenza Hollande ha solo aggiunto caos al caos, incoraggiando il suo alleato ciadiano nel Sahel a interferire negli affari centroafricani attraverso le milizie Seleka. Una manna dal cielo per Mosca che, pur senza mobilitare eccessivamente le sue fabbriche di troll, ha saputo approfittare dello stallo delle operazioni francesi “Sangaris” e “Barkhane”, nonché del comprensibile malcontento delle popolazioni indigene, per promuovere a poco a poco la sua alternativa sicura.

Ipocriticamente drappeggiata nelle sue virtù, la Francia si difende come meglio può accusando i mercenari russi del gruppo Wagner di “esazioni” e “saccheggio” di risorse. Come se la “patria dei diritti umani” non fosse anche quella del noto mercenario Bob Denard.


Traduzione a cura di Monica Fava.

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