A Mosca nessuno ha saputo prenderne il testimone, la dissidenza è sempre più frantumata e demoralizzata: «È impossibile cambiare il paese dall’interno». E ci si divide anche sull’Ucraina
Un anno fa l’ha divorato “il lupo polare”. È così che chiamano la colonia penale nell’Artico dove Aleksey Navalny era stato rinchiuso dalle autorità russe. Il dissidente è morto in una prigione a “regime speciale”, ma in regime speciale aveva già vissuto tutta la vita nella Russia di Vladimir Putin.
Qualche giorno fa, per l’anniversario della morte, al cimitero Borisovsky di Mosca una coperta di fiori ha coperto la sua tomba. Per ore i suoi sostenitori sono rimasti al gelo sapendo che il freddo non era più pericoloso della polizia che avrebbe potuto fermarli.
Una foto per Aleksey
Qualcuno ha portato i figli ad accendere una candela accanto alla foto in cui Navalny sorride: per insegnargli che se in passato c’era speranza, forse nel futuro tornerà. Al momento, però, non si vede.
Dodici mesi dopo la sua morte, il peso del testimone lasciato da Navalny nessuno dei suoi collaboratori, amici, colleghi ha saputo sopportarlo. Nessuno ha la stessa energia, caparbietà, umorismo, tenacia, carisma: quelli che lo ringraziano ancora, anche se è morto, e continuano a sognare un’altra Russia, non trovano tra i vivi un profilo che possa riempire il vuoto lasciato dalla sua sagoma.
Decapitata, demoralizzata, divisa (non solo geograficamente), l’opposizione russa arranca: se lo chiedono in molti ormai se non sia morta insieme a Navalny. Polverizzata dalle fughe oltre frontiera o decimata da arresti e persecuzioni giudiziarie a carico di chi è rimasto in patria, la dissidenza russa è anche dilaniata dalle diatribe interne.
La vedova del blogger in esilio in Germania, Yulia Navalnaya – insieme a Vladimir Kara-Murza e Ilya Yashin, liberati in uno scambio prigionieri tra est e ovest ad agosto scorso – partecipa alle proteste di piazza. È intervenuta alla Conferenza di Monaco il 17 febbraio scorso: «Dobbiamo manifestare per quelli che in Russia non possono farlo». Ma Yashin pensa, e lo ha anche detto, che «è impossibile cambiare la Russia dall’esterno».
Lo sapeva anche Navalny, che aveva deciso di rientrare da Berlino (dove si curava dopo l’ultimo avvelenamento) nel 2021: sapeva pure che sarebbe finito dietro le sbarre e che il Cremlino, la galera, le circostanze probabilmente lo avrebbero ammazzato. Tra la lotta e la vita, ha sempre scelto la prima e aveva dichiarato: «Se te ne vai dal paese, vuol dire che ti sei arreso». L’eco di quelle parole risuona oggi nelle città di Polonia, Germania, Baltici, Regno Unito dove ci sono i transfughi che si trascinano tra lotte intestine e sospetti, incapaci di trovare un’agenda politica comune, almeno un programma per il prossimo futuro.
L’Fbk, fondo anti corruzione fondato dall’oppositore, a settembre ha accusato Leonid Nevzlin di aver organizzato un attacco compiuto per le strade di Vilnius con spray urticante e martello contro uno dei collaboratori più vicini a Navalny, Leonid Volkov. Nevziln è un ex dirigente della Yukos, la compagnia petrolifera che apparteneva all’oligarca, dissidente e nemico di Putin, Khodorkovsky: il gruppo ha respinto le accuse e ha parlato di vergognosa campagna di discredito.
Intanto il blogger Maxim Kats ha a sua volta accusato l’Fbk di aver accettato donazioni da due businessman accusati di frode: l’organizzazione ha respinto le denunce al mittente, insinuando che Kats (in realtà, sua moglie) accetta centinaia di migliaia di dollari da aziende vicine alle autorità russe. Nel febbraio del 2023 a Varsavia si sono riuniti alcuni nemici del governo russo al palazzo Jablonna: il team Navalny, come i più noti oppositori all’estero, non c’erano.
Perché tra ipotesi di stesura di una nuova costituzione russa o di rovesciamento dell’élite al potere a Mosca, c’era chi voleva portare Putin all’Aja, ma anche chi voleva spodestarlo con la forza.
Divisioni sull’Ucraina
Anche il conflitto ucraino ha spaccato più che unire. Un altro gigante della dissidenza, l’ex campione di scacchi del mondo Kasparov, si è espresso severamente: «Non si sente mai l’opposizione russa dire che l’Ucraina deve vincere».
La Washington di Trump che ora flirta con la Mosca di Putin e ci scende a patti rischia di causare la capitolazione non solo di Kyiv, ma anche dei dissidenti che speravano che il conflitto, con le sue conseguenze, a lungo andare, avrebbe indebolito il potere del presidente che si è sempre rifiutato di chiamare per nome il suo più grande oppositore.
Finora non è andata così. Non lo ha sconfitto la guerra, né quella degli ucraini, né quella degli occidentali. Aveva qualche possibilità di farlo la Russia stessa, quella di cui faceva parte Navalny.
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