Salme e cessate il fuoco, i timori di Hamas. «Vogliamo garanzie sul piano di pace»

Il cessate il fuoco di Gaza compie una settimana e Hamas pubblica un comunicato che da un lato sembra tirare le fila della guerra: «Rendiamo omaggio a tutti coloro che hanno versato il proprio sangue al fianco del nostro popolo, Yemen, Libano Iraq, Iran», citando anche la Flotilla, «nonché a coloro che hanno viaggiato sulle navi della libertà per rompere l'assedio». E dall’altro guarda avanti, chiedendo un impegno continuativo dei mediatori, in particolare Egitto, Qatar e Turchia, «a svolgere il loro ruolo nel monitorare l’attuazione delle restanti clausole dell'accordo di cessate il fuoco nella Striscia» concordate con Israele a Sharm el-Sheikh. In particolare, i miliziani chiedono che si monitori il rispetto delle intese «relative all'ingresso degli aiuti, e per avviare con urgenza la ricostruzione». Ostaggi, la ricerca (impossibile) dei corpi. «Hamas ormai non sa più dove trovarli» Valico chiuso Da parte sua Israele continua a impugnare i ritardi nella restituzione dei corpi – 19 mancano ancora all’appello – per minacciare un ritorno alla guerra e temporeggiare sulla riapertura di Rafah, il valico con l’Egitto che però rimane controllato dalle forze israeliane dal lato palestinese. Secondo il Programma alimentare mondiale dell’Onu, che ha sede a Roma, circa 560 tonnellate di cibo sono entrate nella Striscia di Gaza ogni giorno dall’inizio del cessate il fuoco, ma regioni duramente colpite dalla carestia sono quasi impossibili da raggiungere. «L’accesso alla città di Gaza e alla parte settentrionale della Striscia è estremamente difficile», ha dichiarato il portavoce dell’organizzazione Abeer Etefa. Anche per questo il Pam chiede l'apertura di tutti i valichi di frontiera verso il territorio palestinese per «inondarlo di cibo». Affiora per la prima volta in maniera evidente anche il disagio di Tel Aviv nel consentire alla Turchia, paese che ha esplicitamente appoggiato Hamas nel corso del conflitto, di svolgere un ruolo critico nel dopoguerra. Una squadra di 81 esperti della protezione civile turca (Afad), che doveva fare il proprio ingresso nella Striscia, è rimasta bloccata in Egitto, malgrado fra i suoi compiti fosse previsto anche un tentativo di coadiuvare le autorità locali nel reperire i corpi degli ostaggi: il tema che più di ogni altro può rischiare in questo momento di far saltare il cessate il fuoco, con Hamas che mette le mani avanti affermando di non essere in grado di trovare tutte le salme e Israele che proprio su questo aumenta la pressione, accusando i miliziani di «non rispettare» i termini dell’accordo di pace. Intanto dozzine di famiglie palestinesi si sono radunate a Khan Yunis, nel sud della Striscia, sedendosi su sedie di plastica davanti a uno schermo su cui venivano proiettate le immagini dei corpi restituiti da Israele in cambio degli ostaggi israeliani deceduti. Ai microfoni di Al Jazeera, i funzionari hanno spiegato che, in assenza di strumenti per l’analisi del Dna, i riconoscimenti risultano spesso impossibili. Anche la conta dei morti non è finita: la tenuta del cessate il fuoco rimane ballerina, visto che Israele si riserva comunque di attaccare in caso di minaccia alle proprie truppe e sconfinamenti nelle zone controllate. In Cisgiordania si diffonde l’indignazione per i nuovi maltrattamenti subiti in carcere dal leader palestinese Marwan Barghouti, che da sostenitore della soluzione a due Stati scelse la via della lotta armata all’epoca della seconda intifada. Arab Barghouti, quarto figlio del politico di Fatah definito dai sostenitori il Mandela palestinese, ha denunciato i fatti in un video: «Abbiamo appena appreso dai palestinesi rilasciati che si trovano in esilio in Egitto che mio padre è stato attaccato per la quarta volta negli ultimi due anni». Secondo quanto riportato dai media palestinesi, Barghouti avrebbe riportato quattro costole rotte dopo essere stato picchiato dalle guardie carcerarie israeliane durante un trasferimento tra strutture di detenzione a metà settembre, dal carcere di Ramon a quello di Megiddo. Il ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir ha respinto le accuse al contempo dicendosi «orgoglioso che le condizioni di Barghouti siano cambiate drasticamente» durante il suo mandato. «L'assassino Barghouti sa che oggi i terroristi come lui vengono trattati con fermezza, ed è per questo che inventa notizie false per aizzare i suoi odiosi compagni terroristi che lo hanno lasciato indietro nell'accordo»,. Come era già avvenuto nello scambio per il soldato israeliano Gilad Shalit, nel 2011, Israele si è rifiutato di considerare il nome di Barghouti nell’ambito dello scambio di prigionieri con Hamas. La festa per gli ex detenuti: «Ma a Gaza è guerra civile tra Hamas e altre bande» Polemica in Israele Sul fronte interno israeliano continua a tenere banco la polemica relativa alla decisione del presidente della Knesset Amir Ohana, un accolito di Bibi Netanyahu, di escludere Il presidente della Corte Suprema Yitzhak Amit e la procuratrice generale Gali Baharav-Miara dalla sessione che lunedì scorso ha ospitato l’intervento di Donald Trump. Perfino secondo il giornale di destra Israel Haiom, Ohana ha gestito gli inviti «come se si trattasse di una festa del Likud». È stato lo stesso presidente Isaac Herzog, lui che durante la guerra quasi mai aveva alzato la voce per fare da contrappeso alle derive oltranziste del governo, a definire la loro esclusione «inappropriata e lesiva della dignità dello Stato». Già da prima della guerra l’esecutivo è impegnato in uno scontro frontale con le autorità giudiziarie, in parte legato ai processi contro Netanyahu. Proprio durante il suo intervento alla Knesset, Trump si è rivolto a Herzog chiedendogli di concedere un decreto di grazia a Netanyahu. A fronte della sua leadership in tempo di guerra, ha detto alludendo ai prodotti al centro di uno dei procedimenti per corruzione contro Netanyahu, «cosa vuoi che siano un sigaro e una bottiglia di champagne». Trump in Medio Oriente per benedire la “sua” pace, Hamas: «Piano coloniale»