Con la sua straordinaria proniknovenie (penetranza, enfasi, previsione, visione: le traduzioni sono deboli), Dostoevskij lancia una doppia sfida alla modernità globalizzata e s’impone come il profeta della nostra modernità nella quale “tutto è permesso”: compresi nichilismo e guerre sante, femminicidi e pedofilia.

Sfida, anche e soprattutto perché queste rivelazioni sono possibili solo attraverso la lettura, una pratica oggi in difficoltà da parte dell’umanità digitalizzata e virale, che sta a noi risvegliare e fruttificare.

Nell’accelerazione digitale che sfalda le civiltà, la lettura – esperienza singolare – le chiama a risollevarsi appropriandosi della loro memoria. L’“orco russo” ne fa parte. Esploratore nei sottosuoli dell’anima europea, il suo carnevale pensoso ne consuma i demoni. «Ovunque e in tutte le cose, vivevo fino al limite ultimo, e ho passato la vita a oltrepassarlo », scrive Dostoevskij al poeta Apollon Majkov (1867).

La sua scrittura, esuberante appropriazione della vita fin nella morte, strappa l’internauta inghiottito senza limiti dalla Rete e lo invita a un’esperienza interiore che io ricevo come una sorta di immunità intima. La lettura di Dostoevskij edifica contrafforti psichici e culturali indispensabili alla lotta della specie umana per la vita.

Romanzi cristici

Amare Dostoevskij? Dostoevskij “scrittore della mia vita”? (J. Kristeva, Dostoevskij. Lo scrittore della mia vita, Donzelli, 2020). Due espressioni troppo strette per esprimere la sommersione e la rigenerazione che provocano in me la tessitura vocale di quel senso turbinoso, la violenza del Verbo incarnato che io sono, che voi siete, che vi ferisce, vi infastidisce e vi trascende. Quante volte ho voluto proteggermene, rinunciare. Finché la lettura della traduzione di André Markowicz non ha restituito il suo genio alla lingua francese.

L’oratorio che vi propongo, nel mio Dostoevskij di fronte alla morte, o il sesso posseduto del linguaggio (Dostoïevski face à la mort, ou le sexe hanté du langage, Fayard, 2021), è abitato da un Dostoevskij totale e nuovo, galvanizzato dal linguaggio. L’uomo e l’opera s’introducono nel Terzo millennio, in cui finalmente “tutto è permesso”. E le ansie degli internauti raggiungono la sua esperienza della soggettività e della libertà, che fa eco alle contingenze ipermoderne, senza temere di superare i limiti né di vivere fino al limite ultimo.

Accompagno lo scrittore sul patibolo, lui che fu condannato a morte per le sue “idee rivoluzionarie”. Lo seguo nella prigione in Siberia dove intraprende le sue metamorfosi. “Il figlio dell’incredulità e del dubbio”, che resterà tale fino alla fine della vita, scopre e ricostruisce un “Cristo nazionale”, che non lascerà il “nuovo narratore” che sta emergendo nelle Memorie dalla Casa dei morti (1860-62) e dal Sottosuolo (1864-65).

Profetico, il “discepolo dei forzati” presentiva già la matrice carceraria dell’universo totalitario che si rivelò nella Shoah e nel gulag, e che oggi minaccia attraverso l’onnipresenza della Tecnica. Per sfidare il nichilismo e il suo doppio, l’integralismo, che incancreniscono il mondo senza Dio e con lui, Dostoevskij reinventa quella scommessa sulla potenza della parola e del racconto che è il romanzo polifonico (Mikhail Bakhtin).

L’ha fatto, spinto dalla sua fede ortodossa nel Verbo incarnato. I suoi romanzi sono cristici, la sua fede è romanzesca. Dostoevskij ha liberato il sensibile dall’oggettivazione e dall’intellezione nelle quali eccelle il cristianesimo occidentale, e l’intensità del suo cristianesimo ortodosso conduce il romanziere al cuore del pathos distruttivo come del nichilismo ai quali le democrazie fratturate dell’occidente faticano a rispondere.

Partecipi del nulla

«Il nichilismo è apparso da noi perché siamo tutti nichilisti. Quello che ci ha spaventato è solo la sua forma nuova e originale […] Comici sono stati lo smarrimento e il pensiero che si sono date le nostre teste pensanti: da dove sono venuti i nichilisti? Non sono venuti da nessun luogo, sono sempre stati con noi, in noi, presso di noi», scrive Dostoevskij nei Quaderni di appunti (1881).

Fermiamoci a queste frasi. Chi è “noi”? “Noi”, i russi, strattonati tra l’Europa e l’Asia che si attraggono e si respingono, ciascuna (l’Europa e l’Asia) affascinata e sviata dagli usi e costumi dell’altra. “Noi”, gli ortodossi, votati al pafos stihii, crudele sottosuolo delle passioni e dell’adorazione lamentevole delle icone, «autentici nichilisti di paese» (Vlas, in Diario di uno scrittore, 1873), necessariamente sublimi e preferibili ai barbosi dottrinari abbonati ai piaceri scolastici dell’intelletto. “Noi”. Fëdor Michajlovich, nauseato dai socialisti positivisti «persuasi che sulla tabula rasa avrebbero subito costruito paradisi». “Noi”. L’ex fourierista che ha vissuto la condanna a morte e il patibolo, non difettava di empatia per i nichilisti: non si considerava forse un ex nechayeviano? (Diario di uno scrittore, 1873). “Noi”, nichilisti “passivi”, che il rifiuto di credere o l’inadeguatezza al sacro impietriscono in indifferenza, in un mondo utilitarista, basato sul materialismo biologico e sull’egoismo razionale?

Oppure nichilisti “attivi”, come il volgare assassino che si sogna Napoleone, e che è solo un Raskolnikov (da raskol, “divisione”, “scissione”, che designa lo scisma tra gli ortodossi vecchi credenti e la chiesa ortodossa ufficiale, ma anche il grande scisma tra cattolici e ortodossi)? Oppure ancora uno dei “nostri”, la «società segreta di incendiari rivoluzionari, di ribelli», assoggettati al fascino dei Piotr Verkhovenskij, esaltato doppio dell’agghiacciante Chigaliov, di anarchici, dei petrasevcy che gli ricordano la Comune di Parigi che incendia le Tuileries?

Gli sprofondamenti delle democrazie nel totalitarismo, pesti nere o rosse, ma anche le derive sovraniste, ultraliberali con le loro finanze, mercificazione dei corpi, automatizzazione globalizzata degli spiriti o di quel che ne resta, trovano i loro antenati nel programma tragicomico, preleninista di Chigaliov. Stepane Trofimovich Verkhovenskij si diverte a canzonare la felicità utilitarista, aggiungendo al “chigaliovismo” la “profondità” della società dei consumi a venire: «Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio?» (I Demoni, 1872).

Queste parole suonano contemporanee. Raskolnikov, Stavrogin, Kirillov, Verkhovenskij, Ivan Karamazov… i grandi eroi di Dostoevskij sono dei nichilisti, degli atei, dei negatori di Dio, ma vicinissimi a lui. «Voi venerate lo Spirito Santo senza saperlo», diagnostica Tikhon ascoltando la confessione di Stavrogin (I Demoni). Kirillov si suicida «per essere libero» e «solo» ma urlando: «Libertà, uguaglianza, fraternità o morte!». Per Piotr Verkhovenskij è evidente che quel «cittadino del mondo» «crede in Dio», «peggio di un pope».

La Russia ortodossa forse non sarebbe stata la culla del nichilismo se il “siamo tutti nichilisti” di Dostoevskij non riguardasse – più gravemente, più universalmente – “tutti noi”: l’umanità parlante che “partecipa” al nulla e al nichilismo. Da quando? Dal liberismo sfrenato, il colonialismo, lo sviluppo della tecnica? Dalla «storia della metafisica», che «protegge nel suo seno il nichilismo»?

Estenuanti polifonie

Oggi la scrittura di Dostoevskij interpella in profondità la storia sociale e politica europea e planetaria. I romanzi di Dostoevskij sono romanzi del pensiero che eleva il Dire alla più veemente molteplicità. Non c’è altro modo, dice in sostanza lo scrittore, che la polifonia del testo per penetrare con raccoglimento nel sottosuolo del nichilismo. Per trasmettere solo così quell’enigmatica gioia (naslajdenia) che Dostoevskij predilige e che lascia il nichilismo dietro di noi.

Sento la vostra domanda: che se ne fa l’internauta globalizzato di quel nichilista di Raskolnikov, e di Stavrogin, mezzo pazzo; del santo principe Mischin sfiancato dal suo doppio, l’arrabbiato Rogozhin; dei quattro fratelli Karamazov. Resta il male più radicale di tutti i crimini immaginabili, l’abuso sessuale di un bambino con omicidio: sogno di Svidrigajlov, confessione di Stavrogin, possiede lo stesso Dostoevskij … Tra crudeltà e grazia, non ci sarebbe altro perdono al crimine se non scriverlo senza sosta.

Riaprite dunque i suoi libri, e ascoltate bene. Quando finalmente “tutto è permesso”, o quasi, e non avete più angosce ma ansie liquide, più desideri ma febbri di acquisti, più piaceri ma notifiche urgenti su un sacco di applicazioni, più amici ma followers e like, siete incapaci di esprimervi con le frasi quasi proustiane dei posseduti di Dostoevskij, ma vi svuotate nella dipendenza dai click e dai selfie? Ebbene, siete in risonanza con le estenuanti polifonie di Dostoevskij che già profetizzavano lo streaming degli sms, tweet e Instagram, pornografi e e “tasti bianchi”, “#meToo” e guerre nichiliste, sotto la copertura di “guerre sante”.

Dostoevskij sarebbe nostro contemporaneo? Né più né meno di una fuga per quartetto d’archi e di una sinfonia corale di Beethoven. O della densità di Shakespeare. O della Commedia di Dante. Sfide insolenti nel fuori tempo del tempo. Tradotto in tutte le lingue (sedici versioni della traduzione cinese di Delitto e castigo, 1866), il “gigante russo” stimola la reinvenzione del romanzo, la filosofia, la libertà di pensare, in Europa e nel mondo.

Traduzione di Anna Maria Brogi

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