A un primo sguardo si potrebbe pensare che l’uscita di scena di Donald Trump sia una buona notizia per i paesi dell’America Latina. La condotta dell’amministrazione uscente è stata all’insegna della distanza, dell’indifferenza (ricambiata da molti attori latinoamericani), del disaccordo. In realtà, tutti i paesi americani sono andati in ordine sparso. Nei quattro anni dell’amministrazione repubblicana, la comunità americana non ha condiviso alcunché, un progetto di respiro continentale non è stato neppure abbozzato.

Va detto, comunque, che questa è una tendenza in atto da almeno un trentennio. L’ultimo programma che si proponeva di unire “dall’Alaska alla terra del fuoco” è stato, infatti, l’Area di libero commercio delle Americhe, imbastito dalla presidenza di Bush senior, ripreso dai suoi successori Clinton e Bush jr. ma poi miseramente messo in soffitta alla metà del primo decennio del nuovo millennio.

E va segnalato pure che gli Stati Uniti, nonostante abbiano svolto per oltre mezzo secolo una funzione di leadership imposta e/o guadagnata sul campo, non si sono messi in questo frangente alla guida della grande famiglia americana, deliberatamente al principio, e poi sempre più per una declinante capacità di dettare l’agenda continentale. Non a caso hanno preferito rafforzare le relazioni bilaterali con poche e selezionate nazioni (in primo luogo Colombia e Messico e, per ragioni diverse, Cile e Brasile) o con singoli blocchi di paesi – si pensi a quelli centroamericani – piuttosto che attuare una politica davvero emisferica.

L’inattività dell’Osa

Quindi, declino della leadership regionale statunitense, debole solidarietà e poca convergenza tra i vari paesi e balcanizzazione dello spazio americano. Tutto ciò risulta lampante se pensiamo all’inattività del principale organismo regionale, l’Organizzazione degli stati americani (Osa), peraltro lacerata da profonde tensioni tra gli stati membri e minata da discutibili scelte in occasione di crisi che hanno riguardato alcuni di essi (si veda quella istituzionale in Bolivia e quella anche economica in Venezuela).

Un quadro scoraggiante, se consideriamo pure lo stato di letargia in cui versano altri organismi regionali nati per lo più negli ultimi due-tre decenni, da quelli che raggruppano macro-aree (Mercosur, Can, Sica, Alba, ecc.) a quelli che hanno un orizzonte continentale, con l’esclusione però eccellente degli Stati Uniti (Unasur, Celac, ecc.).

Analizzare le relazioni interamericane non è mai stato semplice, ma negli ultimi decenni tale attività sembra esser ancor più ardua, per quanto differenti e variegate sono le condotte e gli orizzonti delle singole nazioni del continente americano.

Del resto, non potrebbe essere diversamente. Se ci limitiamo solo a quelli che si trovano a sud del Río Bravo, abbiamo a che fare con paesi storicamente guidati da governi difficilmente inseribili in blocchi omogenei politicamente e ancor di più ideologicamente.

Lo si è fatto, questo è vero, in passato, per esempio nel corso del Novecento dinanzi a processi quasi a carattere subcontinentale. Si pensi alla stagione del populismo classico (anni 1930-50) o a quella autoritaria (anni 1960-80), solo per fare due esempi. Oppure, in tempi più recenti, a inizio di questo millennio, durante il cosiddetto ciclo progressista durato all’incirca un quindicennio.

Tuttavia, in quest’ultimo caso, l’accostamento di esecutivi e leader di “sinistra” è avvenuto più per comodità di analisi che in base a una reale condivisione di valori e principi, di programmi, di alleanze e collocazione sullo scacchiere internazionale.

Salvo poche eccezioni e per alcune fasi, in special modo se facciamo riferimento al gruppo di nazioni di sinistra “radicale” – Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador – e alla condivisa insofferenza verso le presunte o reali interferenze statunitensi di quasi tutti gli attori latinoamericani, ma con accenti e comportamenti profondamente differenti.

Il fantasma cinese

Alla luce di ciò, il compito che attende Joe Biden non sembra essere affatto agevole. È, ovviamente, del tutto prematuro fare previsioni sugli indirizzi della politica estera latinoamericana degli Stati Uniti durante il suo mandato.

Nondimeno, oltre a quanto è già stato evidenziato, si può segnalare ciò che già sappiamo. Gli Stati Uniti sono ancora il principale partner economico dell’America Latina. Tuttavia, nell’ultimo quindicennio, sia sul piano commerciale che su quello degli investimenti, sono arretrati (-18 per cento nel primo caso) a tutto vantaggio della Cina, che oggi è il primo referente commerciale di Argentina, Brasile, Cile e Perù, e con forti interessi e radicata presenza anche in quasi tutti gli altri paesi dell’area. Più o meno nello stesso periodo, è cresciuto il peso, in particolar modo sul piano della cooperazione militare, della Russia.

A dispetto della costruzione del muro lungo il confine e della revisione del Nafta, Trump ha mantenuto buone relazioni con il Messico e con il suo presidente Andrés Manuel López Obrador. Non a caso, questi è stato l’unico tra i capi di stato latinoamericani a non essersi ancora congratulato con Biden.

Unico insieme al brasiliano Jair Bolsonaro, incondizionato e fedele alleato di Trump, il quale non viene, però, a differenza del suo omologo, di certo considerato di sinistra. Biden dovrà, quindi, decidere come interagire con gli attuali esecutivi messicano e brasiliano, gli unici con i quali l’amministrazione repubblicana uscente ha scelto di dialogare. Si tratta di un passo obbligato per l’importanza dei due paesi in questione, storicamente partner privilegiati di Washington nella regione. Il futuro presidente dovrebbe agire, invece, nel solco della continuità con la Colombia, alleato strategico degli Stati Uniti soprattutto dagli anni Novanta.

Per contrastare la montante influenza di potenze extracontinentali, c’è da attendersi che Biden ricorra agli strumenti della diplomazia e del multilateralismo, strumenti che probabilmente saranno utilizzati anche nei confronti di Cuba, con un ritorno a quanto realizzato durante la presidenza di Obama. Con il Venezuela, invece, non ci si aspettano aperture da parte della Casa Bianca nel prossimo quadriennio. Come per Trump, anche per il politico democratico, Maduro è un dittatore ed è un imperativo appoggiare le forze di opposizione. Da decifrare sono, al netto delle dichiarazioni in campagna elettorale e del modo in cui si è espresso o ha operato in passato, da vicepresidente e da senatore, i dossier caldi relativi all’immigrazione illegale e al narcotraffico. Ciò che è certo è che Biden dovrà, infine, ridare credibilità al suo paese, missione, questa, del resto, non confinabile nel perimetro delle Americhe.

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