«Senza disarmo sarà di nuovo guerra». Netanyahu non rinuncia alle minacce

Quello che Donald Trump continua a chiamare «piano di pace» per il Medio Oriente, o addirittura il preludio di una «everlasting peace», una pace eterna, per Benjamin Netanyahu altro non è nei suoi discorsi in ebraico che un «accordo per la liberazione degli ostaggi». Una scelta di terminologia che la dice lunga sulla sfiducia nutrita da Bibi rispetto alle chances di proseguire senza intoppi nella road map in 20 punti della Casa Bianca, secondo la quale Hamas dovrebbe rinunciare volontariamente alle armi e al potere nella striscia. Ecco allora che nel suo discorso agli “ezrahei Israel”, i cittadini di Israele a cui si rivolge stentoreo all’inizio di ogni capoverso, Netanyahu ha evitato di usare un’altra locuzione molto cara a Trump: la «fine della guerra». Anzi, non ha fatto mistero di considerare, poco più di un’ora dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco a mezzogiorno di venerdì, il ritorno alle ostilità un’opzione aperta. «Stiamo circondando Hamas da tutte le direzioni, in vista delle prossime fasi del piano, in cui Hamas sarà disarmato e Gaza sarà smilitarizzata. Se questo obiettivo sarà raggiunto con le buone, tanto meglio. Altrimenti, sarà raggiunto con le cattive». L’Idf si è ritirata da Gaza, attesa per gli ostaggi: Hamas cerca i cadaveri Sfide quasi impossibili Secondo Nadav Eyal, scrittore e commentatore israeliano, il tema del disarmo è soggetto a interpretazioni. «Al momento, fonti in tutta la regione non credono che Hamas verrà disarmato nel senso che non avrà più la maggior parte delle armi che possiede oggi, cioè fucili, mitragliatrici comuni, granate ed esplosivi: il disarmo completo sarebbe una sfida molto ambiziosa, forse inattuabile, se non altro perché il piano comunque prevede forze di polizia locali. Se il primo ministro invece si riferisce all’industria militare che Hamas era riuscito a costruire nella Striscia di Gaza, ai missili, ai razzi e ai tunnel, quella è già stata quasi completamente distrutta». Anche nel resto del discorso, relativamente breve rispetto ai suoi standard, Bibi ha rivendicato la scelta di prolungare la guerra, sostenendo ancora una volta che i risultati si possono ottenere soltanto con la pressione militare. «Hamas non aveva mai accettato di rilasciare tutti i nostri ostaggi mentre ci trovavamo ancora nella Striscia di Gaza. Hamas ha accettato questo accordo solo quando ha sentito la spada puntata alla gola – e la spada rimane puntata alla loro gola», ha detto. E ancora: «Abbiamo ottenuto grandi vittorie, vittorie che cambiano il volto del Medio Oriente. Ma, come ha affermato il capo di stato maggiore dell'Idf: la battaglia non è ancora finita». La scelta di parlare di «risultati straordinari nella Guerra di Riscatto» e di sviluppi «nel corso dei due anni trascorsi dall'inizio della guerra», senza considerarla in alcun modo archiviata, è probabilmente una premura rivolta a Ben Gvir e Smotrich. I noti ministri guerrafondai, infatti, per ora hanno deciso di rimanere dentro la maggioranza, sperando di continuare ad indirizzare le scelte del governo. Israele e Hamas, sì alla fine della guerra. L’Idf via da metà di Gaza, ostaggi liberi La linea gialla Sempre venerdì Smotrich, in un attacco pubblico a Gadi Eisenkot, ex capo di stato maggiore nonché padre di un soldato rimasto ucciso a Gaza, ha detto di considerare la linea gialla di riposizionamento come un «punto di partenza per continuare a perseguire gli obiettivi della guerra, quando ci sarà l’appoggio del presidente Trump e di tutti coloro che sostengono il suo piano, che afferma inequivocabilmente che Hamas deve essere smantellato e Gaza deve essere smilitarizzata». Queste dichiarazioni fanno pensare che sarà soprattutto la determinazione di Trump a tenere in riga le parti in causa a determinare la tenuta o meno del cessate il fuoco, e il progresso nella road map. Nel frattempo, il presidente Usa si prepara a godersi l’affetto degli israeliani per i suoi sforzi decisivi nella trattativa per il rilascio dei 48 ostaggi: secondo la Cnn il suo arrivo è previsto per lunedì. Netanyahu, che è accusato da tanta parte dell’opinione pubblica israeliana di aver dato troppo poco peso durante la guerra alla questione dei rapiti, patisce probabilmente il fatto di essere messo in ombra. «Prima che il presidente Trump entrasse alla Casa Bianca, abbiamo riportato in Israele 158 ostaggi, 117 dei quali ancora in vita», ha rivendicato. Poi ha ricordato la riuscita di operazioni di salvataggio ardite, sorvolando su un dato incontrovertibile: che hanno avuto successo soltanto in pochi casi eccezionali. Chi vince e chi perde nell’orrore di Gaza