Le sanzioni funzionano e stanno avendo un impatto sul fronte ucraino. A dirlo è Sergei Guriev, economista russo anti Putin che da dieci anni vive in esilio a Parigi. Ex rettore della prestigiosa New Economic School di Mosca e consulente esterno del Cremlino, ha creduto come tanti che la presidenza Medvedev potesse imprimere una svolta liberale alla Russia. Le cose, però, sono andate diversamente.

Quindi, la scelta di sostenere pubblicamente Aleksej Navalny e di prendere posizione contro l’arresto e la condanna dell’imprenditore e oppositore Khodorkovsky. Da allora sono iniziati gli interrogatori e le perquisizioni, fino alla decisione di fuggire a Parigi, nel maggio del 2013.

Ora Guriev è numero due di Sciences Po, l’istituto che forma l’élite politica francese. Lo scorso marzo è stato aggiunto alla lista degli “agenti stranieri” nemici del Cremlino con l’accusa di «aver parlato negativamente delle forze armate russe» e «diffuso false informazioni sul governo».

Professore, qual è lo stato dell’economia russa?
Non sta andando benissimo, ma non è in rovina. D’altronde, sarebbe stato irrealistico aspettarsi che le sanzioni producessero un crollo immediato: il governo può contare su un team molto competente in fatto di politiche economiche, e Putin sa che gli conviene lasciar fare a loro. Ma le sanzioni stanno avendo un effetto, non tanto sul Pil, che è gonfiato dalla produzione di armi e munizioni, quanto sulla qualità della vita, sui consumi, sulle vendite al dettaglio. Se si guardano questi indici lo shock è notevole.

Quando inizieremo a vedere gli effetti sul fronte ucraino?
Li stiamo già vedendo. Le forze russe non hanno fatto progressi significativi sul campo negli ultimi mesi, e questo è anche dovuto alle sanzioni. Avendo accesso limitato alle nuove tecnologie, la Russia sta faticando a produrre armi e mezzi moderni ed è costretta a importarli o a tirare fuori i carri armati sovietici degli anni Cinquanta. Ora sta cercando di comprare munizioni dalla Corea del Nord. La mobilitazione parziale decisa lo scorso settembre, poi, dimostra che Putin non ha abbastanza denaro a disposizione per pagare i mercenari e deve quindi costringere i civili a combattere.

Stiamo facendo abbastanza?
Andrebbero fatte altre due cose: innanzitutto, abbassare progressivamente il tetto al prezzo del greggio russo, che ora è fissato a 60 dollari al barile, per ridurre ulteriormente il flusso di denaro verso le casse russe. Poi bisogna essere più vigilanti e severi sul rispetto delle sanzioni già in vigore, che spesso la Russia aggira passando per stati terzi, come la Turchia o il Kazakistan. Questa sarà la sfida del 2023.

E sull’invio di armi all’Ucraina?
Ne servono di più. Più la guerra va avanti, più alto sarà il costo per tutti. Ma se vogliamo che l’Ucraina vinca, bisogna mandare armi.

Crede che l’avvicinamento con la Cina possa compromettere questi sforzi?
Se la Cina dovesse decidere di supportare economicamente e militarmente la Russia, Putin avrebbe forti chances di vincere la guerra. Ma per ora questo non è successo, probabilmente perché Xi Jinping è stato messo in guardia dall’occidente: se aiuti Putin, imporremo sanzioni anche alla Cina.

Teme che l’inflazione possa erodere il sostegno dell’opinione pubblica europea verso le sanzioni?
Sì, e su questo scommettono molto gli “amici di Putin” disseminati in Europa e in Italia in particolare. Se prima della guerra riempivano Putin di complimenti, ora non possono più farlo, ma possono diffondere la sua propaganda dicendo: «Siamo contro la guerra, ma le sanzioni non vanno bene: non stanno colpendo la Russia, stanno colpendo noi». In realtà, l’inflazione non è dovuta direttamente alla guerra e sta già diminuendo. Certamente va affrontata, ma senza toccare le sanzioni.

La preoccupa il fatto che due grandi “amici di Putin” siano al governo in Italia?
La posizione della presidente Meloni è molto chiara e non lascia spazio ad alcun dubbio. Ma mi stupisce vedere come i legami con un criminale come Putin non abbiano scalfito l’immagine di Berlusconi e Salvini agli occhi dell’opinione pubblica italiana. Berlusconi è stato una fonte d’ispirazione per Putin, come Putin lo è stato poi per Orbán e per Salvini. Tutti condividono una caratteristica: la grande abilità nel manipolare l’informazione per restare al potere.

Tanti come lei, anche in occidente, speravano che sotto Medvedev la Russia potesse intraprendere un percorso di liberalizzazione e democratizzazione. Cosa è andato storto?
Già nel 2010 era chiaro che la Russia si trovasse ad un bivio: o avrebbe intrapreso profonde riforme, o lo status quo avrebbe portato alla stagnazione economica, e quindi alla rottura del patto sociale costruito da Putin nei primi dieci anni di governo: io vi do crescita economica, voi non interferite in politica. Quella di mantenere lo status quo, anzi di aumentare la repressione, è stata una scelta deliberata imposta da Putin una volta tornato alla presidenza nel 2012. E quando l’economia ha iniziato a rallentare a causa dell’assenza di riforme, il presidente ha cercato di recuperare consenso invadendo la Crimea. La guerra in Ucraina segue la stessa logica: incapace di generare crescita, Putin gioca la carta bellica per guadagnare legittimità.

Crede ancora in un futuro democratico per il suo paese?
Non c’è nulla di genetico che impedisca alla Russia di diventare una democrazia. Potranno volerci anni, potrà essere molto difficile, ma è possibile. Anche l’Italia, come altri paesi europei, ha avuto un passato dittatoriale ed ora è considerata una solida democrazia. Il primo passo è mettere Putin fuori gioco. Poi, dipenderà da quale strada vorranno intraprendere i suoi successori: se quella della Corea del Nord, con sempre maggiore repressione e isolamento, o quella della democrazia, che è l’unica che garantisce sicurezza, anche per l’élite al potere.

Ritiene la sconfitta di Putin in Ucraina una tappa necessaria in questo percorso?
Non è né necessaria né sufficiente. Ma la vittoria dell’Ucraina aumenterebbe di molto le probabilità di un cambio di regime in Russia.

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