Shachaf Davidovich ha 18 anni e fra qualche mese sosterrà la bagrut, cioè la maturità israeliana. Nell’anno accademico appena trascorso ha frequentato tre scuole diverse, una per ogni luogo in cui è stato sfollato.

«Mi considero fortunato», racconta seduto davanti alla sua scuola appena riaperta a Shlomi, una cittadina alle pendici di una collina che segna il confine fra Israele e Libano. «Fra gli amici che come me sono scappati all’inizio della guerra, c’è chi ha vagato in molti più luoghi».

60 mila sfollati

A inizio marzo, con la riapertura delle scuole nelle località frontaliere e nuovi incentivi statali, il governo israeliano ha iniziato a incoraggiare attivamente il rientro di circa 60 mila sfollati nelle loro case vicino al Libano. Ma ora la ripresa delle ostilità sul fronte meridionale, con centinaia di morti nei bombardamenti israeliani in seguito al rifiuto di Netanyahu di procedere alla fase due dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza, getta un’ombra sulla stabilità del secondo fronte, facendo tentennare residenti già incerti sulle prospettive.

«Non sappiamo cosa succederà, quindi non sono sicura di voler tornare», dice Liha Reuven, 17 anni, arrivata per frequentare il suo “primo” giorno di scuola. Per il momento la sua famiglia preferisce continuare a fare base in un albergo a Nahariyya, una decina di chilometri più a sud. «Shlomi è un posto molto piccolo, mi piace che sia come una grande famiglia», racconta, «Però si vede [praticamente] Hezbollah dalla finestra, e fa paura».

Or Kamissa, 18 anni appena compiuti, fino all’inizio della guerra era sempre vissuto a Shlomi. «I miei sono arrivati a Shlomi pochi mesi prima della seconda guerra del Libano, nel 2006, non hanno molti soldi e qui era economico», racconta. «Io sono nato poco dopo». Secondo lui in questo conflitto il governo poteva evitare la guerra aperta con il Libano e l’evacuazione dei residenti israeliani, che dura ormai da 17 mesi. «In fondo il Libano non ha partecipato all’attacco del 7 ottobre», dice.

L’equazione imposta da Hezbollah all’inizio della guerra, cioè che la calma sul confine settentrionale dipendeva dal cessate il fuoco di Gaza, è saltata lo scorso novembre, quando la milizia sciita ha accettato di fermare gli attacchi. Ma è inevitabile che il rinnovato scontro nella Striscia e l’atteggiamento guerrafondaio del governo israeliano influenzino il clima anche su questo fronte che, prima del 7 ottobre, era considerato di gran lunga il più pericoloso.

Fra gli israeliani di questa fascia di territorio è diffusa la critica secondo cui Netanyahu avrebbe dovuto affondare il colpo contro Hezbollah molto più in fretta, senza aspettare lo scorso autunno e l’allentamento del conflitto di Gaza. «Il risultato di questo attendismo è che ora c’è tutto da ricostruire. Non solo i palazzi, ma anche le persone, che sono state a lungo senza casa e senza identità», dice Stephan Juffa, 67 anni, un residente di Metulla, la cittadina più esposta, e più distrutta, durante i 13 mesi di conflitto con il Libano.

Anche a Metulla però la distruzione non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei villaggi libanesi di fronte, visibili a occhio nudo dal lato israeliano. Quelli sciiti, considerati vicini a Hezbollah, sono rasi al suolo, mentre quelli cristiani, considerati meno ostili, sono in condizioni migliori. «Hezbollah è molto indebolito ma non è finito», dice Juffa, la cui casa è stata colpita da due missili nel dicembre 2023. «In questo senso la guerra non è finita. La gente qui sperava in un risultato militare molto più chiaro».

A Metulla, come nelle altre località frontaliere, la ricostruzione va molto in fretta. Su una montagnetta oltreconfine si vede una delle cinque postazioni mantenute dall’Idf all’interno del territorio libanese, e si vede anche una nuova barriera israeliana che ingloba qualche centinaio di metri di territorio libanese rispetto alla linea blu. Lungo una strada transitano tre veicoli: appartengono a Israele ma sono bianchi, forse un modo furbo per confondersi con quelli dell’Onu.

Il kibbutz fantasma

Malgrado le nuove misure strategiche adottate dall’esercito per proteggere il villaggio, dei circa 2500 abitanti di Metulla soltanto un centinaio sono tornati. Anche Yir’on, un kibbutz a metà strada fra Shlomi e Metulla, rimane una comunità fantasma.

Qui Allon Meyer, un contadino sessantasettenne che fa parte della squadra di sicurezza, spiega che a fare paura agli abitanti, più che la consapevolezza di quello che è stato, è il pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere. «Il 7 ottobre all’alba ho ricevuto una telefonata: mi dissero, hai visto il sud? Forse Hezbollah farà la stessa cosa», ricorda.

Prima della guerra a Hezbollah veniva attribuito un “tohnit kibbush hagalil”, cioè un “piano per l’occupazione della Galilea”. «Se avessero lanciato un’invasione, ci avrebbero massacrato, non c’era nessuno pronto a difenderci», spiega Meyer. Sua madre, una sopravvissuta alla Shoah, dopo l’inizio della guerra non voleva assolutamente lasciare Yir’on. «Diceva di essere certa che, se fosse andata via, non sarebbe più tornata. E infatti è morta un mese e mezzo più tardi».

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