Chi torna e chi, invece, non torna: nel suo passato c’era stato il “farhoud”, il pogrom più sanguinoso subito dagli ebrei nei paesi arabi, da anziano aveva vissuto l’assalto di Hamas del 7 ottobre 2023. Lo credevano nelle mani della milizia, ora è emersa un’altra verità: è rimasto ucciso nell’attacco. La sua storia racchiude in sé quasi un secolo di storia tragica del Medio Oriente
Di lui si diceva che fosse sopravvissuto due volte. La prima da bambino in Iraq nei giorni del Farhud, il pogrom più sanguinoso subito dagli ebrei nei paesi arabi. E la seconda da anziano in Israele il 7 ottobre 2023, quando la sua casa presso la comunità frontaliera di Kissufim è stata attaccata dai miliziani di Hamas.
Quel giorno Shlomo Mansour, ottantacinquenne israeliano di origini irachene, falegname baffuto che girava in bicicletta per il kibbutz, era scomparso senza lasciare tracce. L’ultima a vederlo è stata la moglie Mazal, mentre veniva trascinato con le mani legate, ancora in pigiama, verso la loro vecchia Suzuki grigia. Per più di un anno si è parlato di lui come dell’ostaggio più anziano in assoluto fra quelli rapiti a Gaza.
Invece è probabile che Mansour vivo a Gaza non ci fosse mai arrivato: questa settimana, infatti, le autorità israeliane hanno concluso una perizia secondo cui sarebbe rimasto ucciso durante l’attacco, e poi trascinato senza vita verso la Striscia.
Cent’anni di tragedie
La vicenda personale di Mansour racchiudeva in sé quasi un secolo di storia tragica del Medio Oriente. Nato a Baghdad nel 1938, Mansour aveva pochi anni durante il pogrom del 1941 che fece 179 morti in due giorni di violenze, stupri e saccheggi nella capitale.
In un documento scritto a mano e custodito dai parenti, visionato dal giornalista belga Wilson Fache, aveva registrato le memorie personali e dei familiari. «Durante il Farhud, gli arabi sono entrati in casa nostra. Hanno colpito mio padre e mia madre diverse volte. Ho pianto e sono corso sul tetto. Lì una donna ebrea chiedeva di riavere il suo bebè, ma gli arabi se lo passavano come una palla. Alla fine, uno di loro prese un coltello e impalò il neonato, restituendolo alla madre come se fosse uno spiedino di carne».
Il ricordo di Edwin
Edwin Shuker, uno dei leader della comunità ebraica in Inghilterra, come Mansour lasciò l’Iraq all’età di 16 anni. «La parola “farhud” è la più calzante per descrivere gli eventi del 7 ottobre, il caos, le uccisioni, gli stupri, le mutilazioni», dice al telefono da Buckingam Palace, reduce da un incontro con i vertici della comunità islamica d’Inghilterra alla corte di re Carlo. «Per questo per la prima volta abbiamo ritenuto appropriato riutilizzarla dopo gli attacchi».
All’epoca un terzo della popolazione di Baghdad, circa 150 mila persone, era di religione ebraica. Più che le tensioni fra arabi e sionisti in Palestina, a precipitare i fatti del farhoud fu la propaganda antisemita del Terzo Reich, in seguito al golpe anti-inglese del gruppo “Quadrato d’oro”, guidato dal filo-nazista Rashid Ali al-Gaylani.
Proprio questo aspetto è stato al centro di un’annosa battaglia legale dei sopravvissuti del Farhud per essere riconosciuti come vittime dell’Olocausto in Israele. L’esito è stato il riconoscimento più generico come «sopravvissuti alle vessazioni antisemite durante la Seconda guerra mondiale», che garantisce un sussidio annuale di circa 1.750 euro, inferiore a quello, comunque certo non dorato, dei sopravvissuti europei.
Nonostante ciò, in occasione dell’ultimo “Yom HaShoah” il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari ha citato Mansour fra i sopravvissuti all’Olocausto rimasti anche vittime del 7 ottobre. E durante una cerimonia pubblica a Tel Aviv il Farhud è stato definito la “Kristallnacht irachena”.
Dopo la breve parentesi del golpe filo-nazista fu il montare del risentimento anti-israeliano dopo la fondazione dello stato ebraico nel 1948 a provocare l’emigrazione di massa degli ebrei verso Israele. Fra il 1949 e il 1952 in decine di migliaia, fra cui la stessa famiglia Mansour, abbandonarono l’Iraq, rinunciando a proprietà, titoli di cittadinanza, e legami vecchi di generazioni.
In questa fase le persecuzioni furono molto dure. Ma esiste anche una storiografia controversa che attribuisce agli stessi servizi israeliani alcuni attentati che negli anni Cinquanta catalizzarono ulteriormente le partenze verso lo stato ebraico.
Comunità “di transito”
Si stima che in totale, in queste circostanze storiche, circa 850 mila ebrei abbiano abbandonato i paese arabi. Ad aspettarli in Israele non c’era esattamente la terra del latte e del miele: è noto come gli immigrati di estrazione sefardita abbiano spesso patito condizioni difficili e discriminazioni. Anche la famiglia Mansour finì inizialmente in una delle famigerate ma’abarot, le comunità “di transito” simili a bidonville recintate, i cui residenti erano afflitti da povertà, servizi scadenti e disoccupazione.
Nel tempo la scelta di risiedere in un kibbutz sarebbe stata per Shlomo anche un modo per tutelarsi dalle fragilità economiche tipiche della compagine sefardita, beneficiando dell’organizzazione comunitaria del villaggio. Ma queste piccole realtà prevalentemente agricole a ridosso della Striscia di Gaza, per ovvi motivi geografici, anni dopo sarebbero diventate il primo bersaglio dell’invasione senza precedenti da parte di Hamas.
Da Baghdad Shlomo era fuggito in cerca di un posto sicuro. Quando il Farhud si è ripresentato, ancora più efferato del primo, sul ciglio della sua porta, per sedici mesi il paese lo ha considerato un «doppio sopravvissuto». Ma come in una versione alternativa della canzone Samarcanda, per quanto fosse scappato lontano, la morte lo aveva sempre aspettato qui.
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