Siamo nati per la guerra? No, ma servono leader antibellicisti per la pace

C’è ancora spazio per una riflessione sulla giustizia e sul diritto internazionale in un mondo in cui l’unico argomento rimasto in piedi, l’unica risorsa spendibile per affrontare e risolvere i problemi, sembra essere l’uso della forza? La domanda nasce dalla sconsolata constatazione che viviamo in un’epoca nella quale si è diffusa nuovamente quella che Simone Weil, negli anni Trenta del Novecento, chiamava «adorazione della forza», dal momento che l’elogio continuo della forza, nonché il richiamo insistente alla legittimità del suo uso, proviene non solo da coloro che la forza la impiegano per perpetrare soprusi e ingiustizie, ma anche da chi vorrebbe rispondere loro, e non trova altri argomenti, altre vie, altre ragioni, che non passino appunto dalla forza e dal suo impiego più o meno efficace. Israele e Hamas, le instabilità incrociate che mettono a rischio il piano di pace Nati per la guerra È una vecchia storia, dalla quale non riusciamo a emanciparci perché ha radici profonde. Essa si ràdica infatti nel nostro modo di pensare la natura della società e degli esseri umani, e proprio per questo appare tanto scontata. Si tratta di una vera e propria “narrazione”, alimentata continuamente dalla politica, dagli organi di informazione nonché da una parte della comunità scientifica che si occupa di questi temi. Una narrazione secondo cui la guerra sarebbe connaturata agli esseri umani, e sarebbe dunque una realtà con la quale fare i conti se non si vuole vivere in una società immaginaria, che però esiste solo nella testa degli utopisti. La realtà sarebbe invece quella dimostrata dalla storia delle società umane, caratterizzata dalla presenza costante e preponderante della guerra. Il piccolo particolare di questa narrazione, che pretende di essere “realista” – l’unica davvero fedele alla realtà – è che tutti i suoi presupposti sono facilmente falsificabili, dal momento che sia con riguardo alla natura degli esseri umani, sia con riguardo alla società, sia con riguardo alla storia della civiltà, gli argomenti impiegati rappresentano una lettura parzialissima e molto interessata della realtà stessa. Ma quale pace, le bussole che orientano Trump sono superiorità e guadagno personale La pace che non vediamo Non è vero infatti che gli esseri umani abbiano una tendenza naturale che li porta inevitabilmente all’aggressione e alla guerra, dal momento che essi mostrano da sempre una tendenza altrettanto marcata alla cooperazione e alla solidarietà; non è vero che le società si fondano soltanto sulla forza e che basano i loro rapporti con le altre società esclusivamente su questa, dal momento che esse hanno da sempre intrattenuto rapporti pacifici di vario genere, a cominciare da quelli economici; e non è vero affatto che la storia sia una successione di guerre, dal momento che, per quanto numerose, queste occupano solo una parte della storia umana, popolata invece in gran parte da periodi che, pur turbolenti talvolta, rappresentano epoche, talvolta anche lunghe di pace. E quand’anche si voglia ricordare che il mondo di oggi è funestato da decine e decine di guerre, bisogna pure ricordare che però la maggior parte degli stati sono tra loro in rapporti pacifici, e che dunque la pace ha una sua realtà altrettanto reale di quella della guerra. Se la parola “pace” vuol dire solo fine delle ostilità Riconoscimento reciproco Tutto ciò, per dire che molti dei discorsi che oggi sembrano riprendere l’argomento di Trasimaco, secondo cui la «giustizia è l’utile del più forte», sono frutto di un malcelato interesse a che le cose vadano nella direzione voluta dai signori della guerra. A chi sostiene insistentemente che è necessario adeguarsi a un mondo in cui solo la capacità di imporsi (o di difendersi) con la violenza può garantire la nostra sopravvivenza, occorre rispondere fermamente che gli strumenti del diritto e della giustizia internazionale, che subiscono ultimamente il dileggio di coloro che avrebbero la responsabilità di farli funzionare, hanno moltissimo da dire, purché i leader dei vari paesi la smettano di assecondare una assurda tendenza bellicista e si assumano la responsabilità non solo di costruire la pace là dove essa è stata distrutta, ma di curarla e custodirla là dove essa esiste, come è il caso dell’Europa, che tra l’altro ha il principio della pace nel suo dna originario. La pace non è assenza di guerra, come il fronte bellicista insiste a dire per spostare l’attenzione sulla guerra, ma è innanzitutto relazione e riconoscimento reciproco. Ecco perché, sia quando la si voglia costruire, come è il caso di Gaza o dell’Ucraina, sia quando la si voglia custodire e curare, bisogna mettere in atto innanzitutto una politica del riconoscimento, che è l’esatto contrario di ciò che il mondo sta celebrando in questi giorni facendola passare per “pace”. Il dominio e la sopraffazione non hanno niente a che fare con la pace, ma rischiano di essere solo una tregua che prepara nuove guerre. Una pace senza popolo: il paradosso di Trump e Netanyahu Tommaso Greco, autore del saggio Critica della ragione bellica (Laterza, 2025) sarà in dialogo con Roberta De Monticelli venerdì 24 ottobre, alle ore 18:30 presso la biblioteca Malatestiana di Cesena in occasione di Agorà festival iniziativa ideata e progettata da Editori Laterza, promossa dal comune di Cesena, nell’ambito di Forlì-Cesena per la Cultura 2028. Info su agorafestival.it