La vera sorpresa è stata vederla ai nastri di partenza delle Olimpiadi, Simone Biles. Non la rinuncia dichiarata alla vigilia delle gare, né il riferimento ai demoni che le popolano la testa e le toccherà domare. No, è stato proprio sapere che fosse presente ai nastri di partenza dei Giochi di Tokyo. Specie se si tiene conto che vengono celebrati con un anno di ritardo.

Ecco, ci saremmo aspettati che Simone rinunciasse prima. Tenevamo conto di premesse che portavano verso quella prospettiva e che infatti si sono verificate soltanto dopo un passaggio supplementare. E non è che disponessimo di informazioni esclusive o di doti divinatorie. È solo che teniamo memoria delle esternazioni rilasciate in tempi non sospetti dalla fuoriclasse statunitense. Parole che non lasciavano pensare un esito diverso da quello di ieri. Per spiegare tocca fare riferimento a un aneddoto personale, ciò che in genere evitiamo.

L'usura accelerata

Università di Firenze, corso di laurea specialistica in Scienze e tecniche dello sport e delle attività motorie sportive e adattate, lezione di Sociologia dello sport. Tema: il rapporto fra l'atleta e il suo corpo come forma di alienazione. La riflessione condotta con gli studenti mette al centro la dinamica di spossessamento della propria dimensione corporea, cui l'atleta d'alta competizione è esposto. Tutto si concentra intorno a un interrogativo: a chi appartiene il corpo dell'atleta?

La risposta non è rassicurante: il corpo appartiene a qualsiasi altro soggetto (la società sportiva che paga il salario e cura la condizione di fitness, le organizzazioni sportive che dettano la scansione dei calendari agonistici, il sistema della comunicazione e dei media che pretende a sua volta l'affermazione dei propri tempi e impone canoni comunicativi ed estetici sempre più selettivi) tranne l'atleta stesso. Che anzi, durante l'arco della carriera agonistica, di quel corpo è il mero manutentore e se lo vedrà restituire soltanto a fine carriera. In quali condizioni di salute, lo si scoprirà soltanto a quel punto.

In questo contesto di alienazione dell'atleta rispetto al proprio corpo, vi sono discipline sportive più usuranti di altre perché sottopongono atlete e atleti a stress più accelerati e prospettano loro un più ristretto arco temporale di carriera. Con la ginnastica a fare da avanguardia. E al termine di quella linea di ragionamento veniva presentato l'esempio di Simone Biles.

A chi chiede il perché di questa rievocazione rispondiamo col riferimento temporale e la fonte documentale. Era il secondo semestre dell'anno accademico 2018-19 e si prendeva spunto dalle dichiarazioni rilasciate nelle settimane precedenti dalla campionessa Usa, riportate fra gli altri dal sito web Ginnasticando in un articolo datato 21 marzo 2019 e intitolato “Simone Biles annuncia il ritiro?”.

Il dovere della sofferenza 

L'articolo riporta le dichiarazioni rilasciate nei giorni precedenti da Biles, che a poco più di due anni di distanza suonano ancora più significative:

«Sto seriamente pensando che quella di Tokyo sarà la mia ultima Olimpiade. Il mio corpo sta attraversando un periodo difficile e sento come se stessi cadendo a pezzi, non letteralmente, ma la maggior parte delle volte è come se fosse proprio così. Sono quasi sempre dolorante e sembra che tutto questo sia giusto, perché se non senti dolore è come se il tuo corpo non stesse lavorando abbastanza».

In quel momento erano le frasi di una giovane donna che aveva scalato le vette del suo sport ed era già entrata nel mito. Avrebbe dovuto esprimere il massimo di felicità e senso di auto-realizzazione. E invece, all'età di soli 22 anni, metteva in pubblico uno stato di saturazione e sofferenza che in altre discipline sportive ci si aspetterebbe dopo avere oltrepassato (e non di poco) la soglia dei 30 anni.

Dunque già a marzo 2019 Simone Biles faceva i conti coi «demoni nella testa». Prospettava che Tokyo 2020 fosse la sua ultima olimpiade. Soprattutto, sottolineava con parole antologiche il senso dello spossessamento corporeo, l'irriducibile conflitto fra salute e fitness (intesa quest'ultima come “adeguatezza alla prova”), il cortocircuito fra successo nella carriera agonistica e felicità personale. Con quell'acuto passaggio sul dolore, che se c'è ti dà disagio e infelicità ma se non c'è ti fa sentire in difetto il senso del dovere.

Il dolore perfetto. Quello legato alle condizioni stesse del tuo successo, quello di cui vorresti liberarti ma per farlo devi ammazzare la parte di te che ti ha portato in alto. Uno stato fisico che ti taglia in due e ti costringe a scegliere fra l'essere pubblicamente sublime e l'essere nulla più che te stessa.

Un anno di più, un'eternità

Ecco perché la vera sorpresa, per noi, era stato scoprire che Simone Biles fosse pronta a gareggiare ai Giochi. Perché la sapevamo ai minimi termini già un anno prima della data ufficiale d'inizio dei Giochi. Perché rispetto a quella data ufficiale si è avuto il rinvio di un anno, che in condizioni del genere viene vissuto come un'eternità.

Perché quell'anno in più è stato pure caratterizzato dallo shock della pandemia, ciò che difficilmente può non aver inciso su un equilibrio fisico e mentale già provato. E perché in questo lungo anno e passa di attesa supplementare Simone ha pure vissuto e comunicato lo sconcerto verso la propria federazione nazionale (Usa Gymnastics), accusata di non avere fatto piazza pulita delle connivenze che hanno coperto l'abusatore seriale e pluri-condannato Larry Nassar, il medico della nazionale di cui è stata vittima anche lei.

Ha avuto forza nel provare a non deludere tutti noi che ci aspettavamo da lei almeno un'altra esibizione di grandezza. Ma ha avuto ancor più coraggio nel dire pubblicamente che il benessere di se stessa conta più delle nostre aspettative. Ha diritto al silenzio. Ma quel silenzio parlerà comunque e racconterà quanto crudele possa essere lo sport verso i suoi idoli.

© Riproduzione riservata