Il latte è uno dei protagonisti nei film americani che dagli anni Ottanta hanno riempito le sale dei cinema, o delle serie tv che hanno colonizzato il nostro immaginario. La foto del bambino scomparso stampata sui cartoni di latte.

La ragazza che al self service della mensa scolastica chiede il latte insieme al panino. Il pugile stanco che dopo il match beve latte direttamente dalla bottiglia. Sembrava che il latte fosse dovunque, in confezioni grandi come non ne avevamo mai viste. Se da un lato questa onnipresenza ci lasciava perplessi (com’era possibile cenare accompagnando un’insalata a un bicchiere di latte freddo?) dall’altro ci affascinava.

Nel film Nuovomondo, di Emanuele Crialese, nell’immaginazione dei migranti italiani che vi si avvicinano gli Stati Uniti erano un luogo dove scorrono fiumi di latte a simboleggiare abbondanza, ricchezza, pancia piena. Ora questi fiumi di latte si sono esauriti. Sullo schermo si vede sempre meno oro bianco... perché gli americani ne bevono sempre meno.

La discesa

I dati dell’Economic Research Service (Ers) del dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti mostra che negli ultimi settant’anni il consumo quotidiano pro capite di latte è diminuito in maniera stabile.

Nel 1970 gli americani bevevano in media 0,96 cups (circa 230 ml) di latte al giorno.

Nel 2019 si bevevano 0,49 cups, circa 125 ml: quasi la metà degli anni Settanta e il 20 per cento in meno rispetto al 2010. Una ricerca dell’Ers ha mostrato come siano soprattutto le nuove generazioni, con una coscienza ambientalista più sviluppata e una maggior attenzione al benessere animale, a bere meno latte preferendo le alternative vegetali.

Ogni anno in commercio ve ne sono sempre di più e di tipi sempre più differenti. Le loro caratteristiche nutrizionali non siano paragonabili a quelle del latte – tranne in alcuni casi come il latte di soia fortificato con il calcio – e il sapore è completamente diverso.

Ma forse è proprio questo il punto: ci si disabitua al sapore del latte, dove con latte si intende quello vaccino, considerando che quello di capra ha sempre rappresentato una fetta molto piccola di mercato.

Le Dietary Guidelines for Americans 2020-2025 raccomandano ancora, proprio come quelle italiane, il consumo di tre porzioni di latte e latticini al giorno. Eppure altre ricerche spiegano come, con una dieta varia ed equilibrata, i principali nutrienti contenuti nel latte (parliamo di calcio, proteine e vitamina D) possano essere ottenuti in altri modi.

Un po’ di storia

Negli scorsi mesi sono fallite due aziende produttrici di latte, la Borden Dairy Co. e la Dean Foods, tra le più grandi degli Stati Uniti. Nel 2019 la Borden Dairy ha registrato una perdita netta di 42,4 milioni di dollari. Il suo fallimento è reso ancora più impressionante dal fatto che la compagnia è stata fondata nel 1856 (il fondatore, Gail Borden, è stato il primo a sviluppare con successo un metodo commerciale per condensare il prodotto). Era proprio in quegli anni che il business americano del latte si andava consolidando.

Come si legge nell’approfondito Milk, di Mark Kurlansky, fin dalla loro fondazione in città come New York e Chicago si produceva e si consumava tantissimo latte. Anche mentre l’urbanizzazione procedeva si trovavano mucche a ogni quasi angolo, tra i palazzi e per le strade trafficate di carrozze.

Il problema era che il latte veniva bevuto crudo e questo faceva sì che nel 1840, a causa del colera e di altre malattie legate a un consumo totalmente non igienico di latte, la mortalità infantile di Manhattan fosse del 50 per cento. A fine Ottocento la tecnica della pastorizzazione venne applicata, tra le polemiche (sensate) di chi sosteneva che ne alterasse il sapore, alla produzione. La mortalità infantile calò immediatamente.

Un business fragile

Fin dall’inizio la produzione di latte vaccino negli Stati Uniti ha avuto delle caratteristiche particolari e svantaggiose. Come leggiamo in Milk: «Una stranezza del settore del latte in America e in Europa era che la sua crescita non era determinata dalla domanda. A volte la produzione cresceva più velocemente della richiesta. Ciò che motivava gli allevatori era che il prezzo del latte era così basso che un’azienda agricola doveva avere più mucche e produrre più latte solo per rimanere redditizia».

I margini di profitto sono sempre stati bassi e hanno sempre favorito grandi aziende rispetto a piccole fattorie. Un business fragile che negli ultimi anni è diventato problematico anche da altri punti di vista: uno studio delle Nazioni unite ha stabilito che la flatulenza delle mucche produce più emissioni serra delle automobili. Non c’è da stupirsi che le nuove generazioni, orientate verso un approccio sempre più vegano all’alimentazione, consumino meno latte.

Intolleranti o non amanti?

C’è chi dà la colpa del calo dei consumi all’intolleranza al lattosio, ma i consumi di formaggi e altri latticini sono rimasti stabili, è solo quello del latte a calare. Quella che è la condizione naturale dei mammiferi (siamo gli unici che lo consumano dopo lo svezzamento) è dovuta a un gene che interviene per bloccare l’abilità di digerire il lattosio, principale zucchero del latte.

L’intolleranza al lattosio negli Stati Uniti si attesta stabilmente intorno al 50 per cento della popolazione e per chi ne soffre non esiste cura se non escludere dalla propria dieta latte e derivati, ridurne il consumo per alcuni periodi, o sopportare i sintomi della propria intolleranza. Ma in Italia e in generale negli altri paesi occidentali abbiamo più o meno lo stesso numero di intolleranti senza che questo dissuada le persone dal consumare latte: i sintomi principali dell’intolleranza sono di natura intestinale e nella maggior parte dei casi sono fastidiosi ma non pericolosi.

Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, suggerisce che la tradizione legata al consumo del latte non tiene conto di un fattore fondamentale: per migliaia di anni, gli europei hanno consumato prodotti lattiero-caseari nonostante la mancanza di un enzima (il lattasi), necessario per evitare disturbi gastrointestinali.

La ricerca, condotta dal professor Richard Evershed insieme ad altri colleghi, mostra come gli europei abbiano consumato latte per migliaia di anni, nonostante il suo consumo causava nelle persone della sofferenza dovuta a gas e crampi.

Un bicchiere di latte

Nel 2014 il celebre pasticcere newyorkese Dominique Ansel ha creato un dolce che consisteva in un bicchierino di biscotto da riempire di latte. Non sono passati nemmeno dieci anni, ma quel dessert sembra già datato, appartenente a un’epoca in cui bere in pubblico un bicchiere di latte freddo veniva considerato normale. Così come sembra incredibile pensare che prima della Seconda guerra mondiale l’80 per cento del latte negli Stati Uniti veniva consegnato porta a porta dai milkmen.

Negli Stati Uniti i latticini (formaggi, burro, yogurt) continuano a essere socialmente accettabili. Il latte sempre meno: Internet pullula di articoli che parlano della “shame of drinking milk as an adult”, la vergogna di bere latte da adulto.

Mentre il consumo di latte vaccino decresce, aumenta un altro numero: quello dei bambini allattati al seno. Ormai da anni sono sempre più le madri che decidono (e vengono messe nelle condizioni) di allattare, dopo che negli anni Settanta si è toccato il punto più basso, il 25 per cento.

È difficile pensare a un collegamento diretto, ma sicuramente il latte è un alimento che, più di ogni altro, può tirarci fuori sensazioni di disagio e fastidio; la bevanda che diventa più facile trasformare nel capro espiatorio di un intero sistema, quello dell’allevamento industriale, pieno di storture e dannoso sotto innumerevoli punti di vista; qualcosa di cui possiamo facilmente fare a meno, perché l’industria alimentare ci fornisce ogni giorno numerose alternative. E sembra quasi certo che negli scaffali dei supermercati americani si leggerà sempre più stesso “di mandorla” invece che “di mucca”.

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