Non c’è solo lo sciamano di QAnon tra le centinaia di imputati a processo o già condannati per l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. C’è il trentenne con un lavoro come assistente per anziani e un master in business administration; ci sono il veterano dell’aeronautica militare e sua moglie, l’insegnante di yoga, la studentessa, il fattorino. Dopo mesi di indagini, sono accusati di reati che vanno dall’aggressione alle forze dell’ordine, alla violazione di proprietà con armi pericolose, fino a reati minori come condotta disordinata o molesta.

Da un’inchiesta di novembre del Washington Post sui procedimenti giudiziari in corso sembra chiaro che, mentre qualche decina di persone si era espressamente preparata alla violenza nell’intento di impedire la conferma da parte del Congresso dell’elezione di Joe Biden, arrivando a Washington in tenuta da combattimento ed esibendo loghi di milizie e club di estrema destra, la stragrande maggioranza delle circa 650 persone sotto processo per la rivolta non faceva parte di gruppi politici o organizzazioni cospirative.

«Uno indossava il suo distintivo di lavoro, un altro una giacca con il suo numero di telefono sul retro». Nessuna affiliazione nota con un gruppo estremista. Nessun grave precedente penale per la maggior parte degli imputati. Cosa è successo allora il 6 gennaio di un anno fa, quando la più antica democrazia dell’occidente moderno ha rischiato di soccombere? Cosa trasforma un “banale” manifestante nel partecipante attivo in un attacco che assume le sembianze di un golpe?

I fatti sono noti. Quel giorno migliaia di uomini e donne prendono d’assalto la sede del Congresso degli Stati Uniti d’America, al grido di «Non ci arrenderemo mai» e «Fermate il furto». Incitati dal presidente sconfitto, Donald Trump, protestano contro la «vittoria rubata», cioè i presunti brogli che avrebbero avvantaggiato Biden. Irrompendo nelle stanze dell’istituzione simbolo della sovranità popolare, la folla trasforma gli scranni delle più alte cariche in set per foto e selfie, fino a trafugare il podio della speaker della Camera, Nancy Pelosi, come un trofeo. Nello scontro con le forze dell’ordine cinque persone rimangono a terra.

Nel mentre, nella piazza antistante, i manifestanti sventolano bandiere con simboli dell’estrema destra nazionalista e del suprematismo bianco, innalzano grandi croci e messaggi religiosi. Una forca viene issata vicino al Lincoln Memorial: minaccia diretta al vicepresidente Mike Pence, accusato di aver voltato le spalle al capo accettando di ratificare i risultati elettorali.

Masse e potere trumpiano

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Le immagini degli eventi hanno fatto il giro del mondo. A un anno di distanza, però, resta l’enigma di quella folla composta in gran parte di persone qualunque, di everyday Americans, che si è trasformata in poche ore in una forza eversiva e un’onda distruttrice. E la risposta all’enigma si può cercare in due direzioni: nelle costanti antropologiche del funzionamento della massa, e nelle strategie proprie del potere trumpiano.

Nel poderoso studio Massa e potere, uscito nel 1960, Elias Canetti spiega i fenomeni di massa a partire dal bisogno degli individui di liberarsi dai «carichi di distanza», cioè dalle distinzioni e dalle gerarchie della vita sociale. «Enorme è il sollievo che ne deriva», scrive. «È in virtù di questo istante di felicità in cui nessuno è di più, nessuno è meglio di un altro che gli uomini diventano massa».

In questa esperienza è insito un moto di «attacco a tutti i confini»: quelli che separano gli individui tra loro, ma anche i confini fisici. L’«impulso di distruzione» della massa si volge contro le porte, le finestre, le parti degli edifici più vulnerabili verso l’esterno, perché i muri rappresentano le divisioni. Perciò, inoltre, i simboli del potere spesso sono i primi obiettivi da abbattere: sono il simbolo dei rapporti gerarchici che non si vogliono più riconoscere.

«Questo uscir fuori da tutto ciò che crea vincoli rigidi, confini e carichi, è», sostiene Canetti, «la vera e propria determinante dell’euforia che l’uomo prova nella massa. In nessun altro luogo l’uomo si sente più libero; egli desidera disperatamente di continuare a formare una massa, proprio perché sa bene cosa lo aspetta quando uscirà dalla massa stessa. Tornando “a casa” ritroverà infatti tutto ciò di cui si era provvisoriamente liberato».

Sono sentimenti che, tornando all’attacco a Capitol Hill, possiamo immaginare accentuati anche dai lunghi mesi di restrizioni alla circolazione e ai contatti determinate dall’emergenza pandemica. Liberazione dalle distanze, senso di euforia e impulso di distruzione si combinano nell’assalto al luogo che la retorica populista di governo ha trasformato non solo nell’emblema del potere nemico del “popolo”, ma anche nella fonte di ogni sofferenza legata alle conseguenze del Covid-19.

Una scarica collettiva

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«Eravamo pronti a entrare in guerra con qualsiasi altra nazione», scrive il giornalista Lawrence Wright ne L’anno della peste, «ma abbiamo trascurato il fatto che il nostro paese potesse entrare in guerra con se stesso».  

Ecco perché la scarica collettiva che si è verificata a Washington ha assunto, più in particolare, la forma di quella che Canetti descrive come «massa aizzata». Questa si forma «in vista di una meta velocemente raggiungibile. La meta le è nota, precisamente designata, e vicina». Lo scopo è «uccidere», fisicamente o virtualmente, la vittima designata. «Lo scopo è tutto. La vittima è lo scopo; ma essa è anche il punto di massima concentrazione: essa riunisce in sé le azioni di tutti».

Non si può non notare che il 6 gennaio fu lo stesso Trump a esporre la vittima designata alla furia dei suoi sostenitori, twittando: «Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare ciò che avrebbe dovuto». Pochi minuti dopo, aggiunse un richiamo ai manifestanti a restare pacifici ma, come scrive Wright, «a quel punto la folla in delirio vagava per le sale di Capitol Hill, tra le statue dei fondatori e degli eroi della storia americana. L’omicidio era nella testa di molti che gridavano: “Impicchiamo Mike Pence!”».

Secondo Canetti, una simile esaltazione febbrile, dopo aver raggiunto il suo scopo, lascia spesso il campo a un sentimento di paura o disgusto. E se è corretto leggere quella che ha assaltato il Campidoglio come una massa aizzata (che pure, fortunatamente, non è arrivata fino all’esecuzione del vicepresidente), si spiegherebbero le molte dichiarazioni di vergogna e disprezzo di sé ascoltate, secondo il Washington Post, dai giudici federali incaricati dei processi.

Dalle testimonianze emerge il profilo di tanti americani che hanno seguito Trump credendo nella sua promessa di tornare a «fare grande» il paese, come in un passato mitizzato in cui il lavoro c’era e la famiglia era una sola, in cui ai cittadini nativi bianchi (in particolare maschi) della classe media era dato ciò che è loro dovuto.

Qualcuno, per questo, ha creduto alla «Big Lie» di Trump riguardo un complotto ai suoi danni, comprendendo solo in seguito di esserne stato vittima. Altri, semplicemente, non si riconoscono negli atti di devastazione immortalati dalle telecamere.

Ansia di rovesciamento e senso di potenza della massa sembrano le chiavi meglio in grado di spiegare il comportamento di tanti partecipanti agli eventi di un anno fa. Niente di tutto questo, però, sarebbe avvenuto senza la propaganda trumpiana, capace di trasformare una menzogna, la «vittoria rubata», in verità al servizio del potere.

Il piano eversivo dell’ex presidente è stato un’operazione magistrale di subordinazione dei fatti all’interesse della politica. E poiché una bugia, costantemente ripetuta, assume sembianze di realtà, ancora oggi oltre un terzo degli americani (e quasi l’80 per cento dei repubblicani) è persuaso della teoria dei brogli di Biden.

Il potere di Trump non smette di minacciare la democrazia degli Stati Uniti. E se tanti presenti a Capitol Hill un anno fa ora vorrebbero non essere stati lì, altri, possiamo scommetterci, sarebbero pronti a una nuova impresa.

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