Uno dei maggiori temi che scuotono il dibattito culturale statunitense riguarda il potere del pensiero woke, ovvero quella forma mentis che, detta in estrema sintesi, vuole regolamentare l’agire umano secondo un rigido perimetro di azioni mirate ad aiutare le “vittime” e a punire gli “oppressori”, spesso definiti con categorie rigide di razza, provenienza e gusti sessuali.

Per molti anni questo modo di pensare e di agire è stato confinato alle aule universitarie, fino a quando è tracimato nelle riunioni dei board delle grandi multinazionali, del tech ma non solo. Questa è l’opinione che è al cuore del pensiero di Vivek Ramaswamy, classe 1985, ex imprenditore del settore farmaceutico che da un paio di anni ha preso a cuore una missione: rendere i capitalisti nuovamente tali, non più snaturati da una nuova corrente di pensiero che, secondo Ramaswamy, sta indebolendo lo spirito americano. Ora si è candidato alle presidenziali.

Non sembrerebbe il suo un pensiero particolarmente innovativo, se fosse solo mirato alla wokeness. Nel suo ultimo libro Nation of Victims, uscito a fine 2022, Ramaswamy traccia una complesso quadro analitico sulle origini del vittimismo contemporaneo.

Oltre il vittimismo

Curiosamente queste radici non vengono rinvenute, come fatto da alcuni analisti, nel pensiero post-strutturalista del filosofo francese Michel Foucault, ma in uno dei miti che ha alimentato il conservatorismo americano del profondo sud, la cosiddetta “Lost Cause” della Confederazione, ovverosia quella teoria pseudostorica che mitizza il sistema schiavista della piantagioni e imputa alla sfortuna e a qualche generale incompetente la sconfitta nella guerra.

Ramaswamy nota che il principale colpevole è James Longstreet, braccio destro del generale Lee che nel Dopoguerra abbraccia il partito repubblicano e combatte per l’uguaglianza degli afroamericani di fronte alla legge. Anche perché, scrive nelle ultime pagine del suo libro, l’autore non vuole fare l’ennesima chiamata alle armi per il mondo conservatore, ma vuole fare arrivare il suo messaggio proprio ai progressisti: «non vorrei aver scritto questo testo invano».

Anche perché il suo argomento è che dopo il 2020 il trumpismo è diventato l’ennesima forma rabbiosa di vittimismo che imputa ad altri le ragioni dell’insuccesso alle presidenziali di quell’anno. Certo la soluzione che Ramaswamy individua per superare questo “bi-vittimismo” appare semplicistica: «perdonare i difetti altrui e andare avanti», ma le criticità da lui individuate sono reali e in parte sono responsabili della polarizzazione politica e della creazione, nei fatti, di due realtà parallele per i progressisti e i conservatori.

Woke Inc.

Al di là della sua personale filosofia eterodossa, quali sono però le mosse di Ramaswamy nel mondo reale? Generalmente il suo agire politico si è mosso nel perimetro repubblicano. C’è poco da stupirsi per chi, come lui, già durante i suoi anni ad Harvard abbandonò le idee libertarie per abbracciare appieno quelle conservatrici.

Del resto, se in Nation of Victims è abbastanza equo nei suoi attacchi, nel suo primo libro Woke Inc. finiscono nel mirino le corporation woke, che non sono solo quelle assimilabili del Big Tech, accusate di aver trovato un modo di aggirare furbescamente le critiche che venivano fatte loro dalla sinistra tradizionale con l’introduzione di nuove parole d’ordine nella governance aziendale: “inclusione” e “sostenibilità”. Per l’autore, si tratta solo di un modo di far soldi con un’autocritica di facciata.

Ma non solo: nel volume, scritto dopo essersi dimesso dalla guida di Roivant Science, compagnia da lui fondata nel 2014, individua una sorta di “Chiesa” del pensiero woke, guidata dal pontefice Klaus Schwab, insieme ai suoi collaboratori Al Gore e Larry Fink, amministratore delegato del fondo d’investimento BlackRock. Questa chiesa imporrebbe agli altri “cardinali” di investire in sostenibilità e di sposare le cause antirazziste, pena una sorta di ostracismo.

Per quello Ramaswamy ha fondato uno strumento d’investimento alternativo a colossi come BlackRock e Vanguard chiamato Strive Management con cui cerca di dare un’alternativa a quegli investitori che non vogliono investire in sostenibilità e sfuggire quindi alla morsa delle “corporation woke”. Insieme a lui, nel fondo ci sono due noti esponenti repubblicani ultratrumpisti come il magnate Peter Thiel e il senatore J.D. Vance dell’Ohio, stato in cui Ramaswamy è nato.

Il bivio

Di sicuro le sue parole hanno trovato ascolto in un bacino elettorale che, pur riconoscendosi nelle idee trumpiane (lo stesso Ramaswamy lo ha votato nel 2020), vorrebbe una nuova guida per il movimento. E lui in pratica vuole replicare lo stesso schema del 2015: un outsider che, con un mix di carisma, idee eterodosse e spirito combattivo, riesce a conquistare la nomination del partito repubblicano.

Il problema, però, è che le sue idee trovano ben poco ascolto tra le fila progressiste: d’altro canto il suo liquidare con sufficienza la questione del razzismo sistemico delle istituzioni come di un problema “inesistente” certo non è un buon viatico per farsi ascoltare.

E come conciliare la sua candidatura alla presidenza con la sua intenzione di riconciliare il paese? Insomma, cosa vuole fare veramente Vivek Ramaswamy con il suo capitale mediatico? L’influencer conservatore o il politico di professione?

Chi può accontentare

Si dovrà scontrare con un campo già ben delineato: i trumpiani sono già dalla parte di Trump, compreso il suo socio in affari J.D. Vance e dall’altra c’è un establishment che probabilmente sosterrà la corsa del governatore della Florida Ron DeSantis, anch’egli molto focalizzato sulle guerre culturali, tanto da affermare all’indomani della sua rielezione lo scorso novembre che in Florida «il movimento woke morirà».

Difficile sfondi in un campo anche perché, nonostante la sua narrazione incentrata sul ripristino dell’eccezionalismo americano che consente a tutti di «partire dal nulla e diventare milionario», la sua storia personale di figlio di due “cervelli in fuga” dall’India, un ingegnere e una psichiatra, certo non è assimilabile a quelle di Horatio Alger da lui citate spesso, uno scrittore ottocentesco autore di libri edificanti di ragazzi partiti da un contesto sociale umile che fanno fortuna attraverso il duro lavoro.

Rimane al momento quindi ancora chiuso nel mistero il suo enigma, dato che potrebbe mettere a tacere le voci sul suo futuro in politico e diventare sempre più influente come critico sociale della wokeness, anche se è alquanto dubbio che abbia la forza di rompere apertamente con Peter Thiel e il già citato Vance. C’è già un esempio che dovrebbe aver chiarito le idee per eventuali outsider repubblicani: la candidatura dell’ex governatrice del South Carolina Nikki Haley, già ambasciatrice all’Onu durante la presidenza di Trump, ha raccolto più critiche da parte dei conservatori (lo scrittore Rod Dreher l’ha definita sulle colonne del magazine The American Conservative “la versione repubblicana di Hillary Clinton”) che entusiasmo da parte dei suoi supporter, dato che nei sondaggi quasi non compare di fronte ai due frontman.

Pur non fornendo argomenti totalmente convincenti per il kommentariat liberal-progressista, gli argomenti di Ramaswamy però potrebbero fare breccia nell’ampio segmento degli americani di seconda generazione di idee moderate una via di fuga intellettuale al martellamento woke-progressista che li vuole rassegnati al rango di “vittime” e non di attori a pieno titolo del loro destino.

Il messaggio di Ramaswamy, quindi, rischia di venire distrutto qualora cedesse alla sua non celata aspirazione presidenziale, mentre i risultati del 2020, che hanno registrato i sorprendenti risultati di Trump tra l’elettorato d’origine latinoamericana, dimostrano come si possa ancora meglio scavare un solco tra le minoranze etniche e un partito democratico sempre più convinto della bontà di un messaggio che appare settario e divisivo.

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