(AP Photo/Kemal Softic)

Timidamente, dopo ventisei anni, si riapre il capitolo di Srebrenica, della strage in Bosnia con 8mila uomini musulmani inermi spinti dai serbi fuori dalla città, verso campi minati, con le armi puntate alle spalle. È stato il massacro più grande e spietato compiuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale di soldati contro civili. L’assemblea generale dell’Onu definì in seguito quella marcia verso la morte «Una vergogna che durerà per sempre nella storia delle Nazioni unite». Quattrocento caschi blu di un battaglione olandese dovevano difendere simbolicamente quella enclave con 40mila abitanti dalla artiglieria serba piazzata sulle colline. Fino a oggi quei soldati sono stati descritti come dei codardi, colpevoli di non aver protetto i civili, preoccupati della loro incolumità, tolleranti o addirittura complici dei carnefici.

Timidamente nelle scorse settimane il governo de L’Aia ha deciso di compensarli simbolicamente con 5mila euro per le critiche ingiuste, l’umiliazione prolungata, i traumi e la mancanza di un vero sostegno politico dopo il ritorno in patria. 5mila euro esentasse, precisa con aridità contabile il comunicato ufficiale, come per non offendere la frugalità olandese esaltata in tutta Europa. L’anno prossimo i reduci di quel battaglione verranno accompagnati in piccoli gruppi a Srebrenica, in una riconciliazione con quella gente e con sé stessi, una seduta psicanalitica assieme ai fantasmi dei morti. Si riapre così, con cautela, una pagina di storia carica di ipocrisia e propaganda. Anche se Hans Borstlap, presidente della Commissione di inchiesta con un rapporto di 170 pagine, non è disponibile per alcun commento.

Le responsabilità dell’Onu

Furono i vertici dell’Onu, a Zagabria e a New York, a lasciare senza direttive quei soldati. A trasformarli in ostaggi e vittime della stessa comunità internazionale che li aveva ingaggiati. In particolare fu il rappresentante speciale Onu per la ex Jugoslavia, il giapponese Yasushi Akashi, a mostrare prudenza e pavidità, negando per cinque volte l’aiuto chiesto dal tenente colonnello Thom Karremans. L’olandese aveva già perso i suoi posti di osservazione avanzati, sentiva la morsa stringersi attorno alla sua base e alla città, chiedeva di inviare l’aviazione per colpire quaranta obiettivi, tra cui le postazioni di artiglieria dei serbi. Questi progressivamente avevano requisito agli olandesi una ventina di automezzi dipinti di bianco con le insegne delle Nazioni unite, sottratto in più occasioni componenti elettroniche alle loro armi rendendole inerti, preteso rifornimenti generosi di carburante. Poi avevano catturato 55 soldati, sequestrato i passaporti, frugato in tasche e zaini. Gli ostaggi erano stati denudati e alcuni sottoposti alla ispezione rettale, nel timore che in quel modo avessero nascosto i microfilm delle brutalità compiute.

Il 17 luglio 1995 su un foglio di carta scritto in inglese e con l’intestazione della Repubblica serba di Pale, protocollato, con il timbro delle forze Onu, firmato da serbi, bosniaci e dal numero due dei caschi blu, si leggeva che «L’evacuazione è stata condotta dalla parte serba correttamente […] la parte serba ha aderito a tutte le regole della convenzione di Ginevra e del diritto internazionale di guerra», con l’aggiunta a mano che il convoglio era stato scortato dalle forze delle Nazioni unite. Un documento autentico che però attestava un falso integrale, firmato dall’ufficiale olandese perché solo con questa dichiarazione i bosniaci impiegati nella base – doppiamente colpevoli per la loro etnia e la collaborazione con i soldati stranieri – potevano essere messi in salvo.

Prima di quel giorno Karremans aveva avuto tre incontri con il generale Mladic, descritto da molti come un Attila balcanico, rapido e brutale come un animale selvatico. Nel primo il generale lo accusava di avere indicato al suo comando quaranta bersagli serbi. Per non essere frainteso faceva decapitare un maialino durante i colloqui con l’ammonimento: così dovevano finire quelli che odiavano la carne di maiale e i loro protettori. Si sarebbe ripetuta una scena simile alcune settimane dopo alla resa di Zepa, ultima delle sei enclave musulmane protette dall’Onu. Davanti al negoziatore della città, un medico con un tovagliolo bianco appeso a un ramo, il generale indicava un maialino su uno spiedo dicendo: «Sbrigati a firmare, o fai la stessa fine». Così mi raccontò il medico.

Al secondo incontro con Karremans il generale aveva convocato le telecamere. L’olandese aveva chiesto a Zagabria che mandassero almeno un generale per far pesare i gradi nella trattativa. I serbi bloccano l’elicottero che deve trasportarlo. Sanno che Akashi davanti alla stessa generica minaccia – non possiamo garantire la sicurezza del volo – era rimasto fermo all’aeroporto di Sarajevo. Troppo diligente, o sinceramente timoroso. Così Karremans, con la sua inferiorità di grado, davanti alla sceneggiata delle telecamere, è costretto anche a fingere una specie di brindisi. Quella immagine vista da lontano, in qualche ufficio bene arredato, tra gente con cravatta e scarpe lucide, sarà per alcuni prova di debolezza e complicità con il nemico. Non sanno quei signori eleganti che il rituale balcanico della rakja, tra gente armata, significa camminare su un filo.

Al terzo incontro Mladic detta le condizioni della resa. Pretende di dividere le donne e i bambini dagli uomini. L’olandese rifiuta e l’artiglieria serba subito spara sulla base dei caschi blu. È allora che vengono presi in ostaggio i 55 olandesi. Il risultato finale sono gli 8mila morti, le fosse comuni e un lento, minuzioso lavoro di reperti mai concluso per dare un nome a quei corpi. Più la vergogna, l’umiliazione, il disonore sulle spalle dei soldati partiti senza una vera preparazione, spediti alla ventura dalla loro caserma di Assen. Nonostante la carneficina nel 1996 Akashi, con una promozione grottesca, diventa vicesegretario generale Onu per gli Affari umanitari e le emergenze.

Il precedente

Eppure sempre lui tra il 1992 e il 1993 era stato supervisore delle Nazioni unite per le prime elezioni in Cambogia dopo gli anni cupi e insanguinati di Pol Pot. Doveva fare applicare gli accordi di Parigi per riportare la normalità nel paese, il primo passo era quello di disarmare tutte le fazioni, e soprattutto i khmer rossi. Partì da Phnom Penh scortato da mezzi militari tutti bianchi guidati dal generale della legione straniera Michel Laridon. Arrivarono nella giungla di Pailin, roccaforte dei khmer rossi e di zanzare micidiali, e a un certo punto si fermarono davanti a una canna di bambù, presidiata da due guerriglieri scalzi ma non intimiditi da quei soldati bene armati e ben protetti né dalla bandiera azzurra. Uno di loro partì in bicicletta e tornò con la sentenza: «I nostri capi non intendono  ricevervi». Akashi, tra le proteste di Laridon ancora infuriato anni dopo quando nella sua casa raccontava quell’oltraggio, ordinò di fare retromarcia. Il disarmo, il punto cruciale degli Accordi di Parigi, veniva cancellato dall’agenda. Questo era un attestato di palese inidoneità per affidare la polveriera balcanica a un personaggio così prudente.  

Inconsistenza

Dopo Srebrenica tutti i responsabili Onu rimasero al loro posto. Si dimise solo Tadeusz Mazowiecki, primo capo di governo non comunista della Polonia, responsabile per i diritti umani nella ex Jugoslavia. Raccontava, dentro una stanza di ospedale a Varsavia, che non si poteva parlare di diritti umani e vedere i responsabili della comunità internazionale agire in modo inconsistente, senza coraggio. Nei suoi rapporti poteva solo descrivere i crimini e le violazioni commesse, ma poi il Consiglio di sicurezza non era obbligato a dare alcun parere su quei rapporti. Il responsabile per i diritti umani non era neanche stato chiamato alla conferenza dopo Srebrenica. Secondo lui in quella diplomazia c’era una buona parte di solidi burocrati, le sei enclave protette esistevano solo sulla carta ma gli addetti ai lavori fingevano che esistessero realmente e tutto il gruppo responsabile della ex Jugoslavia non conosceva affatto la mentalità degli ex comunisti. Così una deriva progressiva e disastrosa aveva permesso di violare gli accordi presi senza correre poi alcun rischio.

Butros Ghali, segretario generale delle Nazioni unite, lo chiamò per convincerlo a ritirare le dimissioni, secondo la teoria che non si deve abbandonare la nave quando la nave è in pericolo. Mazowiecki rispose che non era il suo caso: «Abbandono la nave perché il comandante è un incapace e la guida diritta contro gli scogli».

Pochi mesi dopo un generale della Forza di pace mi dava alcuni elementi sulla piovra a otto braccia tra i caschi blu di diverse nazionalità nella ex Yugoslavia. Un gruppo di sette investigatori Onu aveva aperto più di cento inchieste su traffico di armi, furto di carburante, contrabbando di valuta, prostituzione organizzata. Ma niente di questo lavoro appariva all’esterno. Un controllo efficace sarebbe costato tre-quattro milioni di dollari ma ne avrebbe fatti risparmiare undici. Però le punizioni restavano blande. Solo multe, rimborsi forzati, rimpatri, e al massimo il divieto di candidarsi per una nuova missione. Meglio insabbiare. I caschi blu non avevano una solida reputazione.

La bandiera della Serbia ha tre strisce orizzontali, le stesse strisce e gli stessi colori di quella olandese, ma l’ordine è diverso. In questa deformazione ottica le cicatrici dei soldati olandesi si mescolano a quelle ben più pesanti inflitte proprio dal tribunale de L’Aia ai signori della guerra nella ex Jugoslavia. A Gorazde, altra città martire prima di Srebrenica, un chilo di sale valeva cento marchi tedeschi. Come negli assedi del medioevo.

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