Il ministro Mariastella Gelmini non si è presentata martedì 23 marzo all’inaugurazione del centro di cyber security dell’azienda cinese Huawei a Roma. L’evento si è svolto all’apice di una delle maggiori crisi diplomatiche tra Unione europea e Cina dai tempi della rivolta e della repressione di piazza Tienanmen.

Lo stesso giorno il ministero degli Esteri italiano aveva convocato l’ambasciatore cinese per l’indomani in segno di protesta verso le sanzioni comminate dal governo di Pechino contro diverse istituzioni politiche e accademiche europee, inclusi gli eurodeputati che ne avevano denunciato le violazioni dei diritti umani. La mossa cinese era una rappresaglia nei confronti delle sanzioni decise dall’Ue, per la prima volta dal 1989, per gli abusi contro la comunità uigura, minoranza musulmana dello stato dello Xinjiang.

Il centro per la cyber sicurezza di Huawei non è un investimento controverso. «In Europa Huawei ha altri centri di questo tipo, a Bonn in Germania, a Brussels in Belgio e a Banbury nel Regno Unito, e la cinese Zte ha già un centro simile a Roma», dice Rebecca Arcesati, che si occupa di studiare la politiche tecnologiche e digitali cinesi per il Mercator Institute for China Studies (MERICS) di Berlino. «Questi centri sono aperti dalle aziende cinesi, fornitori con un elevato profilo di rischio, principalmente per rassicurare governo e opinione pubbliche rispetto alla sicurezza delle proprie apparecchiature e ai propri standard in materia di cyber security».

Il think tank per cui lavora Arcesati, Merics, è uno dei più attenti centri di studio della Cina a livello europeo ed è anche una delle istituzioni sanzionate dal governo di Pechino.

Nel suo ultimo rapporto annuale sugli investimenti cinesi nell’Unione europea e nel Regno Unito, pubblicato nel 2020 in collaborazione con Rhodium Group, l’istituto di ricerca indipendente sanzionato da Pechino includeva anche una lista di collaborazioni di ricerca e sviluppo tra aziende cinesi ed attori europei che presentano possibili rischi dal punto di vista della sicurezza nazionale e dei diritti umani, tra i quali segnalava anche due centri italiani.

Due centri italiani

La lista includeva il Joint Innovation Center di Cagliari, un progetto di studio delle smart cities che la regione Sardegna aveva negli anni passati celebrato come una ottima occasione di sviluppo e che includeva tecnologie di riconoscimento facciale. «Il caso del centro di Cagliari è piuttosto unico nel suo genere in Europa, perché si tratta di un centro di ricerca e innovazione tecnologica congiunto sulle smart cities che coinvolge un’azienda cinese» dice Arcesati, «tuttavia esistono altri progetti in Europa per la realizzazione di smart cities in cui osserviamo la partecipazione di società cinesi, talvolta incaricate di disegnare l’intero progetto». La stessa Huawei sta lavorando in Germania a Duisburg e Gelsenkirchen.

Smart city significa città intelligente, e cioè una città in cui i dati delle attività, dalla mobilità al consumo di energia, possono essere utilizzati per migliorare il governo della città. Negli ambienti governativi cinesi, tuttavia, si usa molto il brand “safe cities”, intendendo città sicure perché controllate.

Le “safe cities” fanno parte di un programma di sorveglianza pubblica su scala nazionale usato anche a supporto della repressione delle minoranze come quella uigura nello Xinjang: «Dato il coinvolgimento di aziende come Huawei in questi progetti, anche nella regione dello Xinjiang, abbiamo segnalato la natura potenzialmente problematica della collaborazione di Cagliari dal punto di vista dei diritti umani»

Una telecamera pro capite

Un documento politico nazionale emanato nel 2015 prevedeva per il 2020 una copertura totale delle principali zone pubbliche con telecamere di videosorveglianza. «Ad oggi», dice Arcesati, è stato completato un fitto network di telecamere, molte equipaggiate con software di riconoscimento facciale, che coprono molte aree urbane, meno densamente quelle rurali: siamo ancora lontani da un panopticon in grado di tracciare qualunque cittadino ovunque e in tempo reale, ma quello è l’obiettivo e il Partito comunista cinese sta spendendo ingenti risorse per raggiungerlo».

La videosorveglianza e le tecnologie di riconoscimento facciale stanno ifiorendo in ogni dove, ma se in occidente gli attori che le controllano sono diversi, Arcesati dice che «il caso cinese è unico per il ruolo svolto dal partito nella sorveglianza, i suoi obiettivi e il livello di ambizione».

In Europa il colosso cinese HiKVision, che è nella lista nera del dipartimento del commercio americano proprio per via della complicità nelle violazioni dei diritti umani in Cina, ha una grande fetta del mercato della videosorveglianza. Tra le sue forniture c’è quella del parlamento europeo.

L’Ue ha già conosciuto molte polemiche sulla sorveglianza e sulle violazioni della privacy di origine statunitense: l’inizio del datagate può essere fatto risalire ai tempi di Echelon, il primo grande scandalo della mancata sicurezza dei dati europei, per poi proseguire fino alle rivelazioni del dissidente Edward Snowden sul programma Prism.

«Il tema è molto sentito in Europa, l’influenza delle piattaforme digitali americane e i loro bassi standard sulla privacy hanno attirato moltissime critiche e l’Ue si è mossa regolarmente con proposte di legge per aumentare la responsabilità delle piattaforme».

Anche la sentenza sul caso Schrems II dimostra come il meccanismo del cosiddetto Privacy Shield, che era stato negoziato tra Stati Uniti e Ue per gestire i trasferimenti dei dati personali a scopi commerciali, per la Corte di Giustizia dell’Unione europea non tutelava abbastanza i cittadini europei dalla facoltà dei servizi di sicurezza americani di avere accesso ai dati. «Il tema legato alla Cina è però diverso», dice Arcesati, «non c’è un’alleanza, abbiamo valori politici divergenti».

L’oro dei semiconduttori

Tra le collaborazioni che presenterebbero potenziali rischi e quindi meriterebbero scrutinio da parte del governo italiano Merics citava anche il Microelectronics Innovation Lab dell’università di Pavia, su cui nel 2018 Huawei aveva promesso di investire 1,7 milioni di euro in tre anni. In questo caso la preoccupazione è la condivisione di tecnologia che riguarda la filiera dei semiconduttori, sulla quale la Cina sconta un ritardo rispetto a Unione europea e Stati Uniti, e che è uno di quei settori in cui molti prodotti e tecnologie sono di tipo duale, ovvero possono essere utilizzate sia in ambito civile che militare.

La catena di produzione dei semiconduttori è molto complessa e la Cina ha grandi ambizioni di sviluppo, ma presenta debolezze notevoli. Infatti, le aziende in grado di produrre macchinari per la fabbricazione dei semiconduttori, così come quelle che forniscono tecnologie per il loro design sono una manciata al mondo, quindi la Cina ha notevoli dipendenze sull’estero: Stati Uniti, Taiwan dove ha sede la Tsmc, Corea del Sud e anche Olanda con la Asml.

«L’anno scorso l’Olanda ha bloccato l’export alla Cina di un macchinario Asml di ultima generazione per la fabbricazione di chip, a seguito di pressioni da parte degli Stati Uniti per via dei rischi di utilizzo a scopi militari», dice la ricercatrice.

L’avanzamento nella produzione di semiconduttori è una delle priorità della strategia di sviluppo tecnologico ed economico cinese, che ha come scopo dichiarato quello di diventare leader nelle catene di valore tecnologiche. Ma per raggiungere tale primato la Cina non può ancora basarsi soltanto sull’innovazione domestica. L’acquisizione di tecnologia straniera rimane fondamentale per la strategia di accelerazione dell’innovazione in campo sia civile che militare.

Una relazione complicata

«La Cina è diventata internamente più autoritaria ed esternamente più assertiva, L’Europa, che per molto tempo aveva considerato Pechino in maniera non strategica, ma soltanto come un partner commerciale e un mercato con cui fare affari, ha ripensato il suo approccio», sintetizza la studiosa. Alcuni stati come la Germania di Angela Merkel, secondo la ricercatrice, hanno mantenuto l’approccio cauto della visione economica: «Il settore automobilistico tedesco, per esempio, resta molto esposto in Cina e ha molto potere di influenza sulla politica della Germania verso la Cina».

Il punto di svolta, secondo la studiosa, è stato però l’outlook strategico redatto nel 2019 dalla Commissione Europea, che riflettendo i nuovi equilibri definiva la Cina un partner, ma anche un concorrente economico che punta alla leadership tecnologica ed un rivale sistemico per il suo modello di governo. Il primo ministro Mario Draghi, nel raccontare la linea del nuovo presidente statunitense Joe Biden al Consiglio europeo, ha usato parole molto simili.

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