Gli Stati Uniti sono pronti a difendere Taiwan? «Sì, e in effetti l’isola ha subìto un attacco senza precedenti». I militari americani scenderebbero in campo per Taiwan? «Sì». Così domenica sera Joe Biden – in un’intervista a 60 Minutes – ha esposto in maniera chiara come non mai la posizione della sua amministrazione sulle crescenti tensioni tra Pechino e Taipei.

Subito dopo, funzionari della Casa Bianca hanno fatto sapere che la politica statunitense su Taiwan non è cambiata. La stessa smentita che non smentisce era arrivata il 23 maggio scorso, dopo che a Tokyo il presidente americano aveva replicato che «sì, è questo l’impegno che abbiamo preso» ai reporter che gli avevano chiesto se Washington fosse pronta a difendere con le armi la democrazia taiwanese.

Il mese scorso la visita a Taiwan della terza carica degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, aveva servito a Pechino su un piatto d’argento l’opportunità di mostrare al mondo con esercitazioni navali e aeree senza precedenti che è pronta al blocco navale o all’invasione dell’isola se quello che considera un suo territorio continuerà lungo la strada dell’indipendenza.

Per dirla con Agatha Christie, «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». La prova che la politica degli Stati Uniti su Taiwan – su impulso tanto dei democratici quanto dei repubblicani – sta cambiando, rapidamente.

Fin dal 1979 – quando Washington voltò le spalle alla Repubblica di Cina, come si autodefinisce Taiwan, per riconoscere la Repubblica popolare cinese e mantenerla lontana dai sovietici – uno dei cardini del Taiwan Relations Act, varato quello stesso anno, è stato il principio della ambiguità strategica: la legge impegna gli Stati Uniti a fornire a Taiwan, che da allora non viene riconosciuta come stato indipendente, armi unicamente a scopo difensivo, mentre non li obbliga a intervenire militarmente per proteggerla in caso di conflitto col suo dirimpettaio autoritario.

Le ragioni della svolta

Copyright 2022 The Associated Press. All rights reserved.

L’ambiguità strategica ha affrontato prove difficili e diverse crisi. Tuttavia ha contribuito alla salvaguardia della pace, garantendo il mantenimento di buone relazioni tra Washington e Pechino e prevenendo fughe in avanti tanto degli indipendentisti taiwanesi quanto degli ambienti militari e nazionalisti che a Pechino spingono per quella che chiamano riunificazione dell’isola alla madrepatria. Infatti né gli uni né gli altri potevano sapere se la VII flotta americana – la potenza militare egemone nel Pacifico occidentale – sarebbe scesa in campo.

Questo precario equilibrio non è stato terremotato dal controverso viaggio di Pelosi, che è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. A spingere verso quella che potrebbe essere una svolta storica sono stati i profondi cambiamenti degli ultimi anni a Pechino, Taipei e Washington. Xi Jinping ha inserito la «riunificazione pacifica» di Taiwan all’interno della sua strategia del «grandioso risveglio della nazione cinese». Durante i suoi primi due mandati l’Esercito popolare di liberazione è stato riorganizzato e le spese militari hanno fatto registrare record continui (230 miliardi di dollari il budget 2022).

A Taipei nel 2020 è stata riconfermata un’amministrazione indipendentista – quella del Partito progressista democratico (Dpp) – guidata dalla presidente Tsai Ing-wen, che non riconosce gli accordi presi nei decenni scorsi da rappresentanti taiwanesi e cinesi e che punta sull’internazionalizzazione della questione taiwanese, in primo luogo sul legame con gli Stati Uniti, agitando lo spauracchio dell’aggressione cinese.

Inserendo la questione taiwanese nella loro competizione con la Cina, gli Stati Uniti compiono un azzardo, perché per il Partito comunista Taiwan non solo è parte del territorio cinese, ma rappresenta un simbolo dell’unità nazionale da completare e del riscatto dal colonialismo, essendo stata occupata prima dai giapponesi e infine governata dai nazionalisti rifugiativisi dopo essere stati sconfitti dai maoisti nella guerra civile. Perciò qualsiasi presidente cinese, di fronte a un cambiamento unilaterale della politica americana su Taiwan, non rimarrà a guardare.

Azzardo strategico

Stiamo passando dall’ambiguità strategica all’azzardo strategico: gli Stati Uniti provano a imporre ora una nuova politica taiwanese, perché la Cina, malgrado gli indubbi progressi, è ancora molto indietro rispetto alla potenza bellica a stelle e strisce e la sua economia subirebbe un colpo durissimo da uno scontro militare nel Pacifico occidentale; ciononostante Pechino potrebbe essere indotta a muoversi contro Taiwan prima che, a livello internazionale, possa affermarsi una nuova realtà che soppianti l’ambiguità strategica.

Ieri si è chiuso a Pechino il XVII dialogo strategico Cina-Russia: si è parlato anche di Taiwan. La quasi alleanza che Xi ha voluto con la Russia si giustifica anche con la necessità di Pechino di avere dalla propria parte un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, una potenza nucleare, in caso di scontro con gli Stati Uniti su Taiwan.

È uno scenario da terza guerra mondiale o, nel migliore dei casi, da seconda guerra fredda, quello che sta prendendo forma sotto i nostri occhi. Mercoledì scorso la commissione Esteri del Senato americano ha approvato il Taiwan Policy Act che, coerentemente con la nuova linea statunitense, sostituirebbe il Taiwan Relations Act.

Il Taiwan Policy Act – che gode di un ampio sostegno alla Camera e al Senato, ma che dovrà avere il via libera definitivo del presidente Biden – prevede, tra l’altro, l’inserimento di Taiwan tra i maggiori alleati dopo quelli della Nato, al pari di Israele, Australia, Giappone e Corea del sud; aiuti militari a Taipei per 4,5 miliardi di dollari in quattro anni, non più solo a scopo difensivo; l’impiego della bandiera della Repubblica di Cina negli incontri tra funzionari taiwanesi e statunitensi; sanzioni per alti funzionari del Pcc e per le principali banche cinesi in caso di «ostilità» contro Taiwan.

 

© Riproduzione riservata