L’Afghanistan rappresenta una cerniera naturale tra le rotte centroasiatiche e quelle mediorientali della via della Seta lanciata da Xi Jinping: per Pechino entrarvi da protagonista segnerebbe un grande successo geopolitico.

Per centrarlo la leadership cinese dialogherà con l’occidente e utilizzerà le sue partnership strategiche con Pakistan, Russia e Iran, e la Shanghai cooperation organization (Sco) a guida sino-russa.

Su questo sfondo, il colloquio telefonico previsto per oggi tra il presidente cinese e il presidente del Consiglio, Mario Draghi (quest’anno l’Italia è presidente di turno del G20) si annuncia come un confronto costruttivo tra il leader di una nazione destinata ad assumere un ruolo cruciale nel futuro di Kabul, e chi pragmaticamente cerca la sua collaborazione per un vertice straordinario dei paesi più industrializzati che contribuisca alla stabilizzazione dell’Afghanistan, impedendo massicce ondate di profughi e la riorganizzazione di basi jihadiste.

Il fattore tempo

Ma cosa vogliono davvero Xi e compagni? Per capirne la strategia e le prossime mosse, partiamo da un paradosso: quello di un partito comunista che sta favorendo l’instaurazione a Kabul di un regime islamico oscurantista.

Una contraddizione che si spiega perché la frase di Deng Xiaoping secondo cui «non c’è differenza tra il gatto bianco e quello nero, purché acchiappi il topo», vale non solo all’interno della Cina, dove convivono pianificazione e mercato, ma anche per i governi stranieri, le cui relazioni con Pechino sono improntate a realpolitik. Sono rapporti più o meno stretti a seconda di quanto sono funzionali agli interessi della Repubblica popolare.

E i Talebani potrebbero rivelarsi utilissimi a Pechino, che in Afghanistan ha mire economiche, per lo spazio che le aziende di stato (Soe) potrebbero ritagliarsi nella ricostruzione; e di difesa della sicurezza nazionale, con la possibilità di colpire i gruppi jihadisti che nell’ultimo ventennio sono rimasti nelle aree afghano-pakistane confinanti con la Cina.

Pechino non ha fretta di riconoscere i Talebani. Il tempo gioca a suo favore, perché – mentre l’occidente proverà a imporre agli studenti coranici il rispetto dei diritti umani, un governo inclusivo e la lotta al terrorismo, la Cina (a cui interessa quasi esclusivamente il terzo punto) continuerà a trattare con il nuovo potere di Kabul, attraverso le sue Soe e i dipartimenti del partito, pronti a garantire sotto traccia l’espansione della sua influenza.

Le mani sulle risorse

Certo, c’è l’ostacolo dei miliardi di dollari di riserve di valuta estera afghane bloccati dagli Stati Uniti. Ma la Cina confida che, alla fine, la comunità internazionale contribuirà almeno in parte a finanziare le infrastrutture di cui il paese centroasiatico ha urgente bisogno.

Ma se l’occidente dovesse optare per il boicottaggio dei Talebani, a patto che questi ultimi nel frattempo abbiano effettivamente “pacificato” il paese, per la Cina potrebbe presentarsi una prospettiva allettante: quella di finanziare infrastrutture e investimenti produttivi non con moneta sonante, ma in cambio dello sfruttamento delle materie prime afghane, come già sperimentato, ad esempio, con diversi paesi africani nell’ambito della via della Seta.

Litio, rame e terre rare in cambio di strade (ci sarebbe già un pre-accordo per un’autostrada Kabul-Peshawar), ferrovie e centrali elettriche. Non a caso i media governativi sostengono che «le ricchezze dell’Afghanistan non sono proprietà privata dell’occidente», puntualizzando che «un settore minerario florido sarebbe vantaggioso per tutti gli afghani e aiuterebbe il paese a diventare una stabile realtà produttiva regionale».

Contro il terrorismo

L’altro obiettivo che Pechino spera di centrare in cambio della sua collaborazione (in prospettiva anche con un contingente di pace della Sco) in Afghanistan è altrettanto ambizioso e punta alla legittimazione internazionale della sua campagna contro «i tre mali» (estremismo, separatismo e terrorismo) nella regione del Xinjiang, per la quale nei mesi scorsi è stata messa sul banco degli imputati da parte dell’occidente.

L’entità della presenza e della minaccia del Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim), che Pechino accusa di una serie di attentati in Cina e che avrebbe centinaia di miliziani in Afghanistan, è tutt’altro che chiara. Ma, affermando la priorità della lotta ai jihadisti dell’Etim in Afghanistan, Pechino metterebbe le sue politiche in Xinjiang al riparo dalle critiche internazionali, e chissà che non possa ottenere in futuro la “consegna” dei terroristi uiguri da parte dei Talebani.

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