Con una semplice frase che definisce il presidente turco Recep Tayyip Erdogan «un dittatore con cui bisogna cooperare» il premier Mario Draghi è diventato il nuovo leader in politica estera dell'Unione europea.

Di fronte ai balbettii di Bruxelles che continua a proporre nuovi finanziamenti ad Ankara (oltre ai 6 miliardi pro quota per paesi già stanziati) in cambio della tenuta nei campi profughi turchi di 4,5 milioni di siriani, Draghi ha tolto il velo dell’ipocrisia e ha messo sul piatto la diversa visione che le democrazie liberal-democratiche europee hanno della vita politica rispetto a un governo turco che viene sì eletto in elezioni democratiche ma nel contempo reprime la libertà di stampa ed accademica, arresta i deputati dell’opposizione, destituisce i sindaci con il pretesto di fiancheggiare i terroristi e progetta di mettere al bando il terzo partito turco, l’Hdp, la formazione filo-curda il cui leader, l’avvocato dei diritti civili Selahattin Demirtas, è in galera da mesi.

Il risultato di queste politiche autoritarie è che la Turchia è precipitata in una profonda crisi valutaria ed è in conflitto diplomatico con tutti i paesi vicini.

Alzare il prezzo

Erdogan con i sui atteggiamenti arroganti verso la Ue vuole aumentare la pressione politica su Bruxelles e costringerla ad aumentare il prezzo dell’intesa sui profughi oltre che mandare un segnale forte alla cancelliera tedesca Angela Merkel, finora il più strenuo difensore delle intese con Ankara.

Lo sgarbo diplomatico segnala anche la fine delle aspettative turche di potersi unire all’Unione europea nel prossimo futuro da parte di Erdogan, che ormai pensa di poter giocare un ruolo autonomo di potenza regionale cercando di tornare a contare sui territori un tempo sotto il dominio dell’impero Ottomano, come la Siria, il medio oriente in generale, la Libia, il Caucaso, il Corno d’Africa.

Le manovre di Draghi

Nel silenzio di Angela Merkel che vede avvicinarsi la fine del suo mandato a settembre e le difficoltà interne di Emmanuel Macron, tocca al premier italiano andare in Libia (primo viaggio all’estero del primo ministro) e mandare un segnale forte nell’ordine prima a Vladimir Putin con l’arresto di una talpa italiana al servizio dei russi e poi a Erdogan, guarda caso i due leader che in Libia si sono divisi la sfera di competenza tra Tripolitania e Bengasi del generale Haftar.

Roma vuole riunificare il paese e tornare a primeggiare in Libia nell’interscambio commerciale mettendo da parte quella rivalità con Parigi ai tempi di Nicolas Sarkozy che aveva segnato, con esiti disastrosi, i rapporti in Libia tra Francia e Italia, a  vantaggio di russi e turchi.

Draghi in Libia si è presentato come apripista di un intervento dell’Unione europea con l’appoggio di Washington, che vuole fermare la strabordante influenza russa in Africa settentrionale.

La pacificazione del paese africano passa dalla costituzione di un esercito libico unitario, dal ritiro delle forze russe e turche (spesso mercenari usati in precedenza al confine in Siria) e da una nuova conferenza di pace da tenersi a Roma con la presenza di tutti gli attori e l’appoggio del nuovo segretario di Stato americano, Antony Blinken, che a Bruxelles ha avuto un incontro con il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Una ferita antica

Questa è la vera posta in gioco tra Roma e Ankara a 110 anni dalla dichiarazione di guerra dell’Italia di Giolitti all’impero Ottomano che nel 1911 strappò, con l’invio di duecentomila uomini sul terreno, la Libia ai turchi.

Ed ecco spiegata la dura reazione del partito di Erdogan alle parole di Draghi: «Si comportano (gli italiani, ndr) in maniera dittatoriale e priva di morale con i rifugiati e poi credono di poter dare lezioni di democrazia». Queste le frasi con cui il portavoce del partito turco Giustizia e sviluppo (Akp), Omer Celik, ha replicato al premier Draghi.

Il partito islamista e conservatore Akp è stato fondato dallo stesso Erdogan ed è al governo ininterrottamente in Turchia dal 2002. Con la rivolta giovanile ed ambientalista di Gezi Park nell’estate del 2013 sembrava che l’Akp di Erdogan dovesse cadere sotto il peso delle sue contraddizioni.

Poi la linea politica che ha permesso a Erdogan di superare le difficoltà del 2013-14 è stata una unione di autoritaritarismo e populismo, di accentramento del potere, da un lato, e di ricorso, dall’altro, a una retorica nazionalista con l’abbraccio ai nazionalisti-islamici di Devlet Bahçeli, leader del Mhp, formazione di estrema destra un tempo legata ai Lupi Grigi di Ali Agca, l’attentatore di papa Wojtyla.

Dopo un intervento militare fallito volto a salvare 13 ostaggi in mano del Pkk in Iraq e che ha provocato la morte di tutti i prigionieri a metà febbraio, Erdogan e Bahçeli, sempre più in sintonia, hanno intensificato gli attacchi contro l’Hdp.

Oltre ad aprire le indagini, a febbraio il parlamento turco ha iniziato a esaminare la revoca dell’immunità a 20 deputati filo-curdi. Per Bahçeli, che è in prima linea nel chiedere la chiusura dell’Hdp, una misura del genere potrebbe risultare molto vantaggiosa per Erdogan, che teme di perdere il controllo del parlamento alle prossime elezioni (fatto mai avvenuto negli ultimi 20 anni).

In questo quadro molto delicato si inserisce la pesante frase di Draghi su Erdogan. Come ha ricordato la senatrice Emma Bonino, profonda conoscitrice della Turchia, sul piatto tra Ue e Ankara ci sono tre dossier pesanti: contenimento dei migranti finanziato da un fondo ad hoc annuale, l’unione doganale da rivedere e la questione delle trivellazioni energetiche a Cipro. Quanto basta per aprire un contenzioso diplomatico europeo in un contesto che vede la Libia al centro di un percorso geopolitico tutto da ridisegnare.

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