Il presidente Usa ha annunciato il cessate il fuoco tra Nuova Delhi e Islamabad, anche se la parte indiana ha denunciato le prime violazioni pakistane. A Ginevra, intanto, i colloqui sui dazi tra le delegazioni di Usa e Cina
Se regge, è forse il primo risultato ottenuto dall’amministrazione di Donald Trump. India e Pakistan hanno annunciato un cessate il fuoco immediato, dopo quattro giorni di tensioni, lanci di droni, artiglieria e bombardamenti più o meno mirati. Anzi, ad annunciarlo prima di tutti è stato proprio il presidente degli Stati Uniti sui suoi social.
«Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti, sono felice di annunciare che India e Pakistan hanno raggiunto un accordo per un pieno e immediato cessate il fuoco. Congratulazioni a entrambi i paesi per il loro buon senso e grande intelligenza», ha scritto Trump.
Pressione Usa
Eppure, soltanto poche ore prima, era stato il vicepresidente JD Vance a dire che quella tra Nuova Delhi e Islamabad fosse «una guerra che fondamentalmente non ci riguarda». Non è stato così.
È il potere delle dichiarazioni fuorvianti o confusionarie dell’amministrazione Trump che in questi mesi si sono continuamente susseguite. Ad ogni modo, sia il Pakistan che l’India hanno confermato il cessate il fuoco valido nei cieli, in mare e in terra, malgrado in serata Nuova Delhi abbia accusato la controparte di violare la tregua, denunciando esplosioni a Srinagar, nel Kashmir indiano.
Il governo indiano ha ribadito che l’accordo è stato «negoziato direttamente» tra i due paesi. Mentre il ministro degli Esteri pakistano Ishaq Dar ha sottolineato l’impegno di dozzine di attori, tra cui la Turchia, l’Arabia Saudita e il segretario di Stato americano Marco Rubio. Solo dopo qualche ora, il premier pakistano Shehvaz Sharif ha ringraziato direttamente Trump per il suo «ruolo proattivo per la pace nella regione», oltre a menzionare il lavoro degli stessi Vance e Rubio.
Da quello che emerge, sembra in effetti che il ruolo principale lo abbia avuto il segretario di Stato Usa. Rubio ha affermato di aver dialogato per tutta la notte tra venerdì e sabato con le parti in causa. Dal premier indiano Narendra Modi a quello pakistano Shehbaz Sharif, passando anche per altri vertici politici e militari.
Rubio si è spinto a dire che Nuova Delhi e Islamabad hanno concordato «di avviare colloqui su un’ampia serie di questioni in un luogo neutrale». Un punto su cui al momento non si hanno certezze, visto che fonti del governo indiano hanno smentito ulteriori discussioni su questioni diverse dall’escalation militare.
L’amministrazione Trump ha premuto su India e su Pakistan, specie sul fatto che entrambe le parti non avessero grandi interessi nel far deflagrare le tensioni in un conflitto aperto. Sicuramente a Nuova Delhi e Islamabad serviva dimostrare alle proprie opinioni interne di poter fare la voce grossa con il rivale di sempre. I canali sono rimasti quasi sempre aperti e una volta raggiunto l’obiettivo, pur con decine di morti per parte, si è optato per abbassare i toni.
Il cessate il fuoco comunque è arrivato, accolto con soddisfazione dal resto del mondo. Sollievo espresso dal Regno Unito, dall’Unione europea, da vari paesi del Vecchio Continente e dalle Nazioni Unite, ma anche da altri paesi più esposti, come il Bangladesh e l’Arabia Saudita. Seppur confusionaria, la pressione esercitata dagli Usa è servita. Gli States, d’altronde, hanno canali ben aperti con entrambe le parti e soprattutto hanno leve importanti da giocarsi.
Venerdì Islamabad ha incassato l’ok dal Fondo monetario internazionale – istituto con sede a Washington su cui l’influenza statunitense è molta – per l’estensione di un prestito multimiliardario. Mentre con l’India, la Casa Bianca sta trattando un accordo commerciale che superi la questione dazi. L’ipotesi che l’amministrazione Trump abbia messo sul tavolo le sue carte, quindi, è concreta.
I colloqui svizzeri
Sull’altro tavolo da gioco, quello nei negoziati con la Cina, gli Usa si sono guardati bene dal calare tutte le carte in loro possesso. In Svizzera, nella città di Ginevra, è avvenuto il primo round dei colloqui tra Washington e Pechino. Attorno a un tavolo della residenza dell’ambasciatore svizzero presso le Nazioni Unite, una villa nel sobborgo di Cologny, si sono trovati il segretario al Tesoro Scott Bessent, il rappresentante commerciale Jamieson Greer, il vicepremier cinese He Lifeng e il consigliere per la sicurezza del presidente Xi Jinping, Wang Xiaohong.
Colloqui intensi, due ore la mattina, proseguiti poi nel pomeriggio. Il riserbo di entrambe le parti è stato massimo. Forse perché dalle parti di Washington e Pechino le aspettative sugli esiti non erano alte. I media cinesi hanno però rimarcato l’importanza dei negoziati, i primi dall’inizio della guerra commerciale scatenata da Trump. Un modo per provare a distendere le tensioni.
Anticipato, alla vigilia, dalle dichiarazioni del presidente Usa in cui aveva ipotizzato una riduzione dei dazi sui prodotti cinesi dal 145 all’80 per cento, viste come un segnale benaugurante.
Le delegazioni si riuniranno anche oggi. Rimangono in piedi le possibilità di un abbassamento reciproco delle tariffe, così come di una deroga temporale, magari di 90 giorni come pensato per gli altri paesi, per provare a raggiungere un’intesa più ampia. In ogni caso il dialogo tra Washington e Pechino è aperto.
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