Lo zar annuncia un cessate il fuoco alle festività per gli 80 anni della vittoria dell’Urss. Ma intanto vuole anche un segnale da Kiev. Che risponde: «Sarà solo una parata»
Mosca aperta. Chiede agli ucraini di inviare un segnale per negoziati diretti e propone tre giorni di cessate il fuoco: dalla mezzanotte dell'otto maggio fino alla mezzanotte dell'undici, i giorni in cui in tutta la Federazione, ma soprattutto nella capitale, si celebrerà l'ottantesimo anniversario del trionfo dell'Unione sovietica contro la Germania nazista. È una mossa «volta a plasmare la percezione internazionale», ha riferito un funzionario rimasto anonimo ai media indipendenti russi: «Noi siamo amanti della pace».
Mosca, presto città chiusa. Comincia a blindarsi per la tradizionale parata del Giorno della Vittoria del nove maggio, per ricordare il sacrificio di ventisette milioni di russi in quella che il mondo chiama Seconda guerra mondiale e i russi “Grande guerra patriottica”.
Un profondo scetticismo si leva da Kiev e Bruxelles per la nuova richiesta russa di tregua temporanea, soprattutto dopo la precedente, dichiarata, ma anche violata, nei giorni di Pasqua. Inoltre questo invito al silenzio delle armi arriva accompagnato anche da una minaccia del Cremlino: «In caso di violazioni del cessate il fuoco dalla parte ucraina, le forze armate russe daranno un'adeguata ed efficace risposta».
Perché aspettare?
«Perché aspettare fino all'otto maggio? Se il fuoco può cessare adesso e per trenta giorni, allora sarà reale, non solo per una parata», ha scritto il ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha.
L'Ucraina vuole la tregua, ma di almeno un mese. A deludere, comunque, in queste ore, sono sia Zelensky che Putin, dicono dalle stanze della Casa Bianca, dove si aggira spazientito il presidente americano, frustrato da proposte e controproposte momentanee che variano sul tavolo un giorno dopo l'altro: «Trump vuole una tregua russo-ucraina permanente», ha detto la portavoce a Washington, i due presidenti si devono sedere allo stesso tavolo «e uscire dalla situazione».
A Bruxelles cominciavano perfino ad apprezzare le sfuriate del tycoon sui social che bollava come inaccettabili gli attacchi russi contro le città ucraine, gli altolà in forma di «Vladimir, stop!», gli interrogativi munifici sull'omologo russo che «lo prende in giro».
La Russia intanto sembra voler lasciare la porta socchiusa: è pronta a sedersi al tavolo dei colloqui diretti, ma per riprenderli il segnale deve arrivare direttamente dall'Ucraina. «Dovrebbero almeno prendere qualche provvedimento in merito. Hanno ancora un divieto legale», ha detto il portavoce Dmitry Peskov, facendo riferimento a un decreto che impedisce di negoziare con il presidente Putin in vigore dal 2022. In ogni caso, ogni negoziato dovrà partire da un fondamento basilare: il riconoscimento internazionale dell'annessione della Crimea e delle altre regioni ucraine (Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia) «è imperativo», come esplicitato dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, rinfrancato come molti a Mosca che questa condizione gli americani l’hanno già accettata (Per dirla con le parole di Trump al Time: «Tutti capiscono che la Crimea è russa da molto tempo, da molto prima che Trump arrivasse»).
I rapporti di fiducia tra Washington e Mosca non si sono incrinati, ha assicurato il capo della diplomazia russa: il dialogo con gli statunitensi «procede, restiamo aperti ai negoziati. Ma la palla non è nel nostro campo. Kiev non ha dimostrato la sua capacità di negoziare».
Eppure, proprio adesso Zelensky sarebbe pronto a riconoscere la perdita della penisola per cederla a Mosca: lo ha detto Trump commentando l'incontro tra in due avvenuto a San Pietro durante i funerali del Papa. Ha notato che il leader ucraino è «più calmo», «vuole un accordo». Ma ha anche chiesto altri aiuti: «Mi ha detto che ha bisogno di più armi, ma lo dice da tre anni».
Le truppe avanzano
Nonostante lo sbandierato “primo miracolo” di Francesco annunciato dai media, festeggiamenti forse prematuri per un riavvicinamento tra il presidente americano e quello ucraino nel “bilaterale” più improvvisato e straordinario della storia al Vaticano, la pace non sembra più vicina. Mentre si bada ad ogni sillaba pronunciata dai capi di Stato, poca attenzione si presta agli avanzamenti militari sul campo dove i russi continuano a macinare terreno. Lo hanno fatto e lo hanno rivendicato anche ieri: preso il villaggio di Kamenka, Kharkiv.
Inoltre Mosca sta espandendo l'infrastruttura e le basi militari nella città di Petrozavodsk, a circa centosessanta chilometri dalla frontiera finlandese, per prepararsi a un potenziale scontro con la Nato. A riportarlo, in contatto con ufficiali a conoscenza dei piani del rafforzamento al fianco est, il Wall Street Journal.
Mosca, alla vigilia della sua più sentita celebrazione di maggio, continua a festeggiare la sua Kursk “liberata”. A ringraziare i soldati di Pyongyang che hanno combattuto nella regione russa contro gli ucraini, dopo gli omaggi che sono già stati loro tributati dal capo di stato maggiore Valery Gerasimov e dal ministero degli Esteri russo, è stato ieri Putin in persona: li ha chiamati «eroi». Il regime di Kim Jong-un li esalta («hanno dimostrato alto morale e valore militare») e promette che al loro «eroismo di massa, coraggio e abnegazione senza pari» verrà innalzato addirittura un monumento.
La gratitudine russa e la riconoscenza nordcoreana sono conferme pubbliche del dispiegamento delle unità di combattimento la cui presenza finora era stata negata o taciuta: Seul addita «l'atto illegale che viola la Carta delle Nazioni Unite e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza», Washington intima ai nordcoreani che «qualsiasi supporto fornito alla Federazione russa deve cessare». Secondo la Commissione europea, invece, è proprio questa «amicizia militare» tra Stati canaglia che indica il livello di disperazione russa. Mosca debole, fiacca e isolata.
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