Siamo alla fine della terza settimana dei combattimenti in Sudan tra le forze paramilitari (RSf) di Mohamed Hamdan Dagalo e l’esercito sudanese guidato dal generale Abdel-Fattah Al-Burhan. All’inizio di questa settimana il sindacato dei medici sudanesi ha fatto sapere che fino ad allora si contavano 436 morti e 2100 feriti, ma secondo le Nazioni unite i numeri sono saliti a 550 morti e 4900 feriti. 

La guerra si combatte strada per strada nei quartieri di Karthoum e la crisi umanitaria è sempre più difficile da gestire. Oltre 300mila cittadini hanno perso le proprie case e vivono per strada, mentre più di 100mila persone sono fuggite verso paesi vicini tra cui Egitto, Ciad, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana ed Etiopia.

Il sottosegretario generale Onu per gli aiuti umanitari, Martin Griffiths, ha esortato i combattenti a permettere il passaggio di aiuti umanitari e servizi medici dentro il paese, specialmente a Karthoum e nella regione del Darfur, le aree più colpite: «Chiediamo la circolazione delle forniture umanitarie e delle persone. Lo facciamo in ogni altro paese, anche senza cessate il fuoco». 

La richiesta è arrivata dopo che sei camion del Programma alimentare mondiale (Wfp) erano stati saccheggiati lungo la strada. Il sottosegretario è arrivato ieri, 3 maggio, a Port Sudan, il principale porto marittimo del paese africano, dove migliaia di cittadini sudanesi e stranieri si sono radunati nella speranza di fuggire dal paese dell'Africa orientale dilaniato dal conflitto

Le tregue 

Lunedì era iniziata una nuova tregua di tre giorni, ma come tutte le precedenti il fuoco non è mai davvero cessato, sono solo cambiate le intensità dei combattimenti. Al termine di questa tregua “formale”, un’altra ne deve cominciare oggi 4 maggio. Si tratta della tregua più lunga mai accordata dalle parti in guerra, dovrebbe durare infatti sette giorni.

L’intesa è stata raggiunta grazie alla mediazione del Sud Sudan, in questo momento sotto pressione lungo i confini per ritorno dei rifugiati sud sudanesi che avevano lasciato la loro casa a causa della lunga guerra civile che aveva flagellato il paese durante lo scorso decennio. 

Perché tutte le tregue falliscono in Sudan

Anche se il cessate il fuoco è sempre deciso da entrambe le parti, nessuna delle due lo vede davvero come un passaggio per arrivare a una mediazione e quindi a una risoluzione del conflitto. Mercoledì sera, riguardo a quest’ultima sospensione dei combattimenti, l’inviato di al-Burhan, Dafallah Alhaj, ha dichiarato ad Al jazeera che l’accordo era solo per una tregua «non per una mediazione sulla risoluzione del conflitto» spegnendo le timidi speranze che l’accordo dei generali fosse un segno di progresso.

Per ora entrambe le fazioni pensano di poter vincere, anche se alcune centinaia di paramilitari hanno disertato ieri le Rsf per unirsi all’esercito. Nessuna delle due forze è indietreggiata, ma neanche è riuscita a indebolire la controparte in maniera da assicurarsi la vittoria. 

L’esercito ha dalla sua una maggiore potenza di fuoco ed è riuscito fin ora a colpire le Rsf dall’alto. Ma la risposta dei paramilitari è stata quella di trincerarsi nelle aree residenziali cosicché al-Burhan deve scegliere se distruggere vaste aree della capitale o tentare un approccio più lento. Inoltre le Forze di supporto rapido, non potendo godere di uno status istituzionale come l’esercito, sembrano però più temprati in battaglia avendo combattuto per il governo sudanese nel Darfur, spietatissima guerra civile dei primi anni del Duemila.

APN

Le evacuazioni: il caso di Londra

La straordinaria potenza dei combattimenti ha fatto sì che in poco più di una settimana dall’inizio della guerra gli stati stranieri si organizzassero per rimpatriare i propri concittadini, in primis tutti i lavoratori delle missioni diplomatiche. Non tutte le azioni di salvataggio della popolazione sono andate come sperato. Il Regno unito ha evacuato oltre 2mila persone in una settimana, ma non senza intoppi.

Cittadini britannici raccontano di essere stati messi davanti alla scelta se mettersi in salvo abbandonando i loro cari, o rimanere in Sudan con loro. Il governo inglese, infatti, non avrebbe permesso ai cittadini di origine sudanese, coniugi di cittadini britannici di salire sui voli di salvataggio. Molti di questi hanno raccontato le loro esperienze al Guardian. 

Suleiman, che ha chiesto di non rivelare il suo cognome, ha detto che un funzionario britannico lo ha chiamato per dirgli che avrebbe potuto essere evacuato con i suoi due figli, ma che la moglie incinta, una cittadina sudanese, non sarebbe potuta partire. 

In alcuni casi, i funzionari britannici hanno concesso ai genitori dei bambini piccoli i visti e hanno permesso loro di imbarcarsi. In altri casi li hanno respinti, ponendo alcune famiglie di fronte alla scelta se dividersi e permettere ai figli di volare verso la salvezza o rimanere insieme in una zona di guerra. Non è chiaro perché alcuni casi siano stati trattati in modo diverso.

Davanti a un hotel designato come ufficio temporaneo dell’ambasciata britannica a Port Sudan si è radunata una settimana fa una folla di 100 persone che imploravano disperatamente i funzionari di poter lasciare il paese con un volo di evacuazione supplementare partito lunedì scorso. I funzionari britannici hanno respinto molti, mentre altri sono riusciti a partire con un volo aggiuntivo del giorno dopo. 

Alcuni invece riescono a partire solo perché cittadini inglesi attualmente nel Regno Unito fanno pressione dall’interno come Amr Elnazir un 23enne di Manchester che ha fatto pressioni sull’ufficio per lo sviluppo degli Esteri e del Commonwealth (FCDO) per permettere a suo zio britannico, Kamal, e alla moglie sudanese dello zio, Batool, insieme ai loro quattro figli di età compresa tra i sei e i 13 anni, di salire su un volo di evacuazione.

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