Il coronavirus inseguiva Donald Trump da marzo: si è trattato – per tutta la campagna elettorale – del convitato di pietra che il presidente non è mai riuscito ad allontanare da se stesso. Che effetto avrà questo evento sul risultato elettorale?

Ovviamente non lo sappiamo: non possiamo dire a caldo se favorirà una maggiore empatia dell’elettorato di Trump con il suo leader; se avere al centro della scena il nemico che Trump non riesce a sconfiggere – i morti americani per il Covid-19 sono più di 200 mila – lo sfavorirà; se Trump tramuterà questa vicenda in una opportunità mediatica («è un complotto cinese!»). Ma per ragionare attorno alla notizia del momento – la positività di Donald e Melania Trump al Covid-19 – e porla in una prospettiva più ampia dobbiamo dividere l’analisi in due parti. La prima riguarda la meccanica della campagna elettorale, l’altra il “rapporto complicato" fra il presidente Trump e la crisi pandemica.

Partiamo dal primo punto. Cosa stava accadendo fino alla notizia della positività? Manca un mese al voto: dopo il primo dibattito televisivo la campagna entra nella fase più intensa e i candidati cambiano passo.

Strategie opposte

Di fronte agli impedimenti causati dal coronavirus i due contendenti avevano scelto strategie completamente diverse: Biden – il “candidato nel seminterrato”, dal quale ha parlato nella fase più intensa della diffusione del virus – ha cominciato da poco a girare per il paese, facendo del rispetto del distanziamento sociale e dell’uso della mascherina un messaggio politico (ed è stato criticato per questo: «Quando cominciate a fare campagna elettorale?», è stata la domanda di alcuni commentatori); Trump ha invece scelto un ritorno alla normalità, anche quello un messaggio politico («il virus è sotto controllo»): manifestazioni affollate e poche mascherine (a volte anche contro le indicazioni sanitarie dello stato che ospitava l’evento). Al di là della dimensione simbolica di questi rally trumpiani, il piano di Trump era estremamente pratico.

Il presidente è indietro nei sondaggi: a livello nazionale Biden è stabilmente avanti a lui, sempre attorno al 7 per cento. Un vantaggio più consistente di quello della Clinton nel 2016, soprattutto negli stati che contano. Va ricordato, infatti, che le elezioni in America si vincono vincendo una somma di stati, non il semplice voto popolare.

A ogni stato si assegna un certo numero di Grandi elettori, che sono stabiliti in proporzione alla popolazione. Chi prende un voto in più nel singolo stato conquista tutta la posta (due eccezioni: Nebraska e Maine hanno un sistema corretto in modo proporzionale): 3 Grandi elettori nel minuscolo Wyoming, 55 in California. Chi arriva a 270 vince. Gli Stati in bilico sono una manciata (sei o sette in queste elezioni); i repubblicani contano su questa alchimia per poter rivincere, visto che nel voto popolare a livello nazionale hanno sempre perso dal 1992 a oggi, tranne che nel 2004.

Nel 2016 Trump vinse soffiando tre stati tradizionalmente democratici a Hillary Clinton: Pennsylvania, Wisconsin e Michigan. Tre stati che, sommati, fecero circa 14 milioni di votanti: a Trump bastarono 78 mila elettori in più distribuiti sui tre stati – in Michigan, per esempio, vinse per 11 mila voti su 4 milioni e mezzo di elettori – per conquistare la vittoria (78 mila persone: la popolazione di Asti). Trump prese comunque 3 milioni di voti in meno a livello nazionale, ma l’intuizione di mobilitare l’elettorato di quegli stati, approfittando dei difetti della campagna della Clinton, fu il vero capolavoro di Trump.

Oggi, però, i democratici hanno scelto un candidato che sa rivolgersi proprio all’elettorato di quegli stati, da cui proviene (è nato in Pennsylvania) e che conosce da quarant’anni. Certo, Biden ha altre debolezze, ma non questa. Che cosa c’entra tutto ciò con il tampone positivo di Trump? Il presidente aveva deciso di battere fisicamente questi stati – e altri sotto osservazione, come la Florida – in modo costante, con grande impegno e investendo molto denaro (certo, restano gli spot nelle tv locali e il web).

Galvanizzatore in capo

Sarebbe dovuto andare in Wisconsin fra poco, era appena tornato dal Minnesota, uno stato simile a quelli citati che la Clinton aveva conservato per un soffio. Perde, insomma, due asset importantissimi: occupare i media locali con la sue presenza e fare la cosa che gli riesce meglio, ovvero il galvanizzatore in capo della sua gente. Per quanto tempo? Non lo sappiamo. Si vince per 10mila voti, si gioca sui particolari (uno su tutti, che qui non possiamo approfondire: l’uso politico, in ogni singolo stato, delle regole per l’accesso al voto).

Secondo punto. Torniamo ai temi simbolici e comunicativi. La percezione è che tutto questo potrebbe favorire Biden. I “ma” con cui cautelarsi non sono mai troppi, quando si tratta di Trump, ma la sensazione è quella di una narrazione politica imposta dal coronavirus, che Trump non è in grado di controllare. Mentre a gennaio veniva percepito da tutti come un presidente in carica che poteva agguantare la rielezione, il Covid ha imposto a Trump una crisi che non ha saputo controllare. Inutile elencare quante volte il presidente, nel corso di questi mesi, si sia contraddetto, abbia detto bestialità sanitarie, evitato i consigli dei tecnici, minimizzato la portata del virus per parlare, invece, dei disordini in strada o del pericolo cinese.

La domanda di protezione

Non solo la pandemia è difficilmente gestibile da un sistema sanitario frammentato e spesso inefficiente (specie di fronte a crisi di questa portata), ma le soluzioni che servono per sconfiggere il Covid-19 non fanno il paio con l’istinto di Trump: sembra affermarsi un paradigma nuovo di leadership, con l’emersione di una domanda di cura e protezione diversa rispetto a quella del 2016. Importa meno essere Great Again, interessa di più vivere in un sistema che protegge, con leadership che trasmettono competenza e paiono mostrare, quantomeno, di indicare un’azione coerente contro il virus e le nuove vulnerabilità. L’ansia da pandemia sottrae campo alla rabbia rivolta verso immigrazione e globalizzazione, danneggiando – anche fisicamente: potenza dei simboli – le leadership populiste mondiali cresciute in questa fine di decennio.

Nelle teorie della comunicazione si parla di “issue priming”: gli elettori associano un tema a un campo politico; se si parla più spesso di immigrazione, i repubblicani sono avvantaggiati nel determinare l’agenda pubblica attorno al tema della protezione dei confini e dell’identità americana; se si parla di coronavirus, “gira” un software diverso da quello che Trump predilige: vedremo se sarà capace di trovare il colpo d’ali che fino a ora è gli mancato.

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