Tende canadesi, capanne in teli di plastica e amache. Oppure, se va bene, un tetto sopra la testa e materassi per terra. A poche centinaia di metri dal sogno americano l’attesa è diventata un incubo per i migranti sul confine tra Messico e Stati Uniti. Intrappolati, non possono andare né avanti né indietro.

Sembra un videogame perverso il meccanismo messo in piedi dall’amministrazione di Donald Trump sulla politica migratoria, tra muri immaginari, deportazioni in massa e bambini separati dai genitori. E molto dolore, su entrambe le sponde del Rio Grande. Le decine di migliaia di centroamericani tuttora ammassati oltre la frontiera, e accuditi soprattutto da organizzazioni umanitarie, sono uno dei problemi che Joe Biden si sta preparando a ereditare.

I campi profughi si trovano lungo la linea del confine – Tijuana, Ciudad Juárez, Nuevo Laredo, Matamoros – tutte città messicane incollate alle rispettive gemelle Usa. Quella speculare a Tijuana, per esempio, è San Diego.

Migrant Protection Protocol

La legge che ha provocato il disastro umanitario ha un nome politicamente corretto, Migrant Protection Protocol, ma tutti la chiamano con il nome sbrigativo di “remain in Mexico”, cioè resta in Messico. La siglarono a fine 2018 Trump e il presidente messicano, Andres Manuel López Obrador, con tanti dollari di contorno per tener buono e convincere il vicino a sud. Un po’ come la Ue fece con la Turchia per arginare l’invasione di profughi siriani: vi riempiamo di soldi ma ve li tenete.

La strana alleanza tra il primo presidente messicano di sinistra in oltre un secolo e il più destro di quella americana, due populisti allo stesso grado, non poteva che offrire una soluzione spicciola di corto raggio, un interesse reciproco e alla fine un dramma. Difficile venirne fuori, adesso.

Espulsione immediata

La “remain in Mexico” funziona (si fa per dire) così. Da molti anni ormai la pressione sulla frontiera americana è dovuta soprattutto a centroamericani (Honduras, Guatemala, Nicaragua, El Salvador) in fuga da miseria e violenza nei rispettivi paesi, e che arrivano qui dopo aver attraversato, spesso in modo rocambolesco, il Messico. Questo tragitto di avvicinamento ha di per sé storie di morte e violenze ben conosciute, da coloro che perdono la vita cavalcando il treno La Bestia, alle donne stuprate e i bambini rapiti dalle gang di narcos, alle sparizioni di intere carovane per portar via gli spiccioli del viaggio. Una volta passato il deserto o il Rio Grande i migranti catturati dalla polizia di frontiera chiedevano in automatico asilo agli Stati Uniti, e aspettavano lì la decisione.

Con la legge Trump-López Obrador c’è invece l’espulsione immediata e l’attesa è stata spostata in territorio messicano, da cui i campi profughi. Promesse bellissime: aspetterete lì, e ben accuditi, il vostro turno per entrare.

La norma invece è stata congegnata per disincentivare, e sfiancare persino un supereroe da videogame che ha superato tutti gli ostacoli per arrivare fin qui. E per far sapere agli altri, quelli ancora a casa, di non pensare nemmeno a mettersi in cammino. Oggi il migrante fermato in territorio Usa viene riaccompagnato in Messico con un numerino, una lista d’attesa, al termine della quale (vari mesi) si presenta alla frontiera spiegando perché pensa di aver diritto all’asilo.

Dopo la lista d’attesa, altra attesa

Se la storia appare credibile viene accompagnato al tribunale Usa più vicino, il quale di solito lo rimanda altri 6-9 mesi nel campo profughi in Messico, fino alla prossima udienza. Se accettati, migranti con donne e bambini devono poi aspettarsi nella migliore dell’ipotesi almeno un paio di settimane in una specie di capannone in territorio che chiamano hielera (ghiacciaia) per le condizioni climatiche notturne, e almeno altri sei mesi di detenzione prima di trovare un un residente legale americano che faccia da garante. Insomma, un imbroglio sulla pelle di disperati. Non a caso soltanto in pochissimi su oltre 50mila richiedenti asilo sono riusciti a superare tutta la prova.

Per chi deve restare mesi in territorio messicano non ci sono soltanto limbo e incertezza, ma la quasi impossibilità di tornare nel paese di origine. Non che a Juárez o Matamoros sia molto meglio che tra le Maras salvadoregne. Le città di confine messicane sono tra le più violente al mondo, e i profughi centroamericani sono obiettivo di violenze e furti. Spesso vale davvero la pena continuare a provarci. A Matamoros il campo profughi è sulla riva del Rio Grande, che qui è poco più largo di un canale. Incombe il ponte internazionale e la bandiera a stelle e strisce dall’altro lato ti guarda giorno e notte. Ci sono ragazzi, ha raccontato un volontario, che in questi mesi ci avranno provato quindici volte. A causa del Covid, difatti, l’espulsione è immediata, non passi nemmeno una notte in una cella o nella hielera.

“Bye Trump”, ma non così in fretta

Alla notizia della vittoria di Biden, dalle tendopoli si sono alzati grida di gioia e palloni con la scritta “Bye Trump” rivolta verso il fiume. È vero che il democratico ha inserito l’abolizione della “Remain in Mexico” e lo stop alla costruzione del muro trumpiano nel suo programma dei 100 giorni. Ma attendersi un “liberi tutti” con apertura dei ponti nella prossima amministrazione è un’illusione. Per quanto prive di scrupoli, le mosse di Trump hanno alleggerito la pressione sul fronte sud; la questione migratoria poi è un problema per Washington da decenni, ed è difficile separare politicamente i falchi dalle colombe. La stessa amministrazione Obama-Biden è stata tra le più intransigenti, e a quel periodo i difensori dei diritti umani imputano la creazione dei duri centri di detenzione per clandestini. I tentativi di abrogare le leggi più rigide, con istanze di migranti accettate da alcuni giudici, non hanno dato esito.

Anzi, la Corte suprema ha già ammesso il mese scorso la costituzionalità della “Remain in Mexico”. Poi c’è il ruolo dei messicani, non secondario. López Obrador, come Bolsonaro in Brasile, rischia di trasformarsi in un altro orfano di Trump. Biden intende per prima cosa risolvere gli altri problemi creati dal suo predecessore sulla frontiera. Ci sono ancora 545 bambini che non sono mai stati ricongiunti ai loro genitori, e vivono in rifugi americani; e c’è la questione del famoso muro per il quale i finanziamenti del Congresso non sono mai arrivati e la sua trionfale avanzata, declamata da Trump, si è rivelata più che altro una sostituzione di pannelli preesistenti.

Se il dramma dei migranti intrappolati è reale, tutta la questione lo è assai meno, se si pensa che i numeri degli ultimi anni (catture e espulsioni) non sono nemmeno paragonabili a quelli di fine secolo scorso, quando si superava regolarmente il milione di migranti respinto ogni anno. Passato Trump, insomma, la questione migratoria si può anche derubricare da priorità a semplice problema.

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