È finita 57 a 43. Ma per rendere effettivo l’impeachment dell’ex presidente Donald Trump – la sua condanna morale per “incitamento all’insurrezione” e la conseguente interdizione dai pubblici uffici – ne occorrevano dieci in più. Paradossalmente, erano dieci quei senatori repubblicani che, secondo la ricostruzione dell’accusa, avevano il compito di tirare in lungo la seduta plenaria del Congresso per dare tempo ai manipoli trumpiani di entrare nel palazzo e “convincere” il vicepresidente Mike Pence a sospendere la ratifica di Joe Biden. Già, e nessuno aveva fatto presente che, anche solo per galateo istituzionale, avrebbero dovuto astenersi dal voto. E così Trump è stato salvato, grazie a una giuria che annoverava dieci indagabili come complici diretti dell’accusato. (Sarà il prossimo libro di John Grisham?).

Il prologo

La questione ha un prologo, che vale la pena essere raccontato. Venerdì pomeriggio, appena chiusa l’ultima arringa della difesa di Trump (volgarissima, affidata con supremo disprezzo a un avvocaticchio di Philadelfia esperto in quantificazione dei danni da incidenti stradali), la reporter Jamie Gangel della Cnn sganciava la notizia bomba: una deputata repubblicana, Jaime Herrera Beutler, una dei dieci repubblicani che ha votato alla Camera per l’impeachment, rivela di aver assistito a una telefonata drammatica tra il suo capo, il capo dei repubblicani alla Camera Kevin McCarthy e il presidente Trump. Siamo ovviamente al 6 gennaio, sono le 14.20 circa. McCarthy, alterato nella voce, comunica al presidente che i rivoltosi sono ad un passo dal suo ufficio e gli chiede di “fermarli”. Trump gli risponde a male parole: «Magari sono persone a cui il risultato delle elezioni interessa più che a te…». McCarthy: «Ma con chi cazzo credi di stare parlando?» è la risposta. Attenti agli orari, perché pochi minuti dopo il secret service sgombera velocemente dall’edificio il vicepresidente Mike Pence, con tanto di valigetta nucleare. E tra la telefonata e lo sgombero con valigetta nucleare, c’è tempo per un tweet di Trump che accusa il suo vice di codardia. Il presidente voleva far uccidere il suo vice e proclamare la legge marziale?

Roba pesante, la sorpresa dell’ultimo minuto, un classico dei processi di Perry Mason. E infatti si scatena il pandemonio; sabato mattina i democratici chiedono di riaprire il processo con l’ascolto di nuovi testimoni e il Senato approva, con 55 voti contro 45. A questo punto la difesa Trump chiede di ascoltare duecento altri testimoni. Lo scopo è evidente: trascinare il processo per settimane, se non per mesi, bloccando l’approvazione del Senato ai colossali e “socialisti” sussidi anti Covid che Biden ha stanziato e che l’America povera aspetta con una certa ansia. I democratici non se la sentono; la testimonianza di Herrera Buetler viene messa agli atti, ma altri testi non verranno ammessi. Facile per la difesa Trump sorvolare sull’episodio nelle dichiarazioni finali. L’ex vicepresidente Mike Pence, l’uomo che avrebbe dovuto essere assassinato dal suo presidente, non fa più parlare di sé da quel giorno. Così si arriva al 57 a 43, preceduto dalla consegna di una medaglia d’oro – tutti in piedi, standing ovation, commozione - all’agente di polizia Goodman che, depistando gli assalitori, aveva probabilmente salvato la vita di alcuni dei presenti in aula; e seguito dal colpo di scena più inaspettato di tutto il processo.

Prende la parola Mitch McConnell, 79 anni, del Kentucky, fino alle elezioni il leader del Senato, l’uomo più potente del Partito repubblicano, politico di lunghissima lena. Poche ore prima del voto, dopo settimane di crisi di coscienza, aveva annunciato che avrebbe votato per l’assoluzione, e quindi aveva preannunciato il verdetto. Ora si presenta al microfono - bianco come un sudario, ma con la voce ancora ferma e la deliziosa cadenza del sud. Dice che la condotta del presidente è stata, con un termine militare, «una disonorevole inadempienza ai doveri» e scandisce: «Non c’è dubbio, davvero nessuno, che il presidente Trump sia concretamente e moralmente responsabile degli eventi del 6 gennaio»; dice che ha diffuso falsità sul risultato elettorale per eccitare la sua base, che l’ha convocata e organizzata per marciare sul Campidoglio, che era al corrente delle violenze e non ha fatto nulla per soccorrere il suo vicepresidente in pericolo. Si è poi augurato che la giustizia ordinaria lo porti alla sbarra per questi gravissimi delitti – ovvero che lo portino in galera - ma ha concluso sostenendo l’incostituzionalità dell’impeachment, l’interpretazione della costituzione che sostiene che essendo lo scopo della procedura dell’impeachment la rimozione del presidente, questa non poteva applicarsi a Trump che non è più presidente, ma un privato cittadino.

Sembrava davvero un fantasma fuori luogo, Mitch McConnell – un conservatore delle campagne del Kentucky che cavilla come un sofista greco! – sembrava che mettesse lui stesso la testa dentro il cappio che i trumpiani avevano innalzato davanti al Campidoglio. Quello che stava in realtà dicendo era che il partito repubblicano – il Grand Old Party – non era più suo. Era diventato un’altra cosa e lui, come il principe di Salina del Gattopardo, non aveva più tanta voglia di prendersene cura.

Il giorno dell’infamia

Un’aria di tragedia ha caratterizzato la fine del processo. «Il giorno dell’infamia», ha detto Chuck Shumer, il nuovo leader democratico. La lugubre previsione che «ciò che è successo il 6 gennaio potrà ripetersi nel futuro», hanno detto i pm democratici che hanno sostenuto, con straordinaria passione e competenza, l’accusa; la dimostrazione che «la democrazia americana è molto fragile», ha detto Joe Biden; «il segnale che il mio movimento avrà un grande futuro», ha detto Trump, da Mar-a-Lago.

L’analisi politica del voto del Senato americano è abbastanza semplice: molti senatori e deputati repubblicani affronteranno tra un anno nuove elezioni e sanno che non possono fare a meno degli elettori trumpiani, per essere eletti, per cui la scomunica dell’ex presidente sarebbe fatale. (Ed è già tanto che in sette si siano sottratti alla stretta). Ma ci sono altri aspetti da tenere in conto: Trump è ancora un’entità autonoma o è sottomesso anche lui alla folla che ha scatenato? Ha ancora soldi per pagarsi la politica? I processi agli insorti del fallito colpo di stato, che coinvolgeranno migliaia di persone, lo chiameranno direttamente in causa? Sullo sfondo, l’influenza crescente del culto di QAnon, cresciuto in tre anni da modesta follia a maggior azionista del Partito repubblicano americano.

Sono stati loro la spina dorsale dell’insurrezione del 6 gennaio, sono loro che decidono chi sono i buoni e i cattivi. Nel processo a Trump, sono i veri vincitori; con la sua assoluzione si è di fatto ammesso che i manifestanti avessero ragione a credere che le elezioni erano state truccate, come aveva detto il presidente e come aveva sempre sostenuto QAnon. E il presidente non è stato punito per questo. Quindi, era vero. Quindi, si ripeterà. La “big lie”, che è stata al centro del processo, è uscita assolta insieme al suo perpetratore. La big lie diceva che le elezioni erano truccate perché avevano votato in massa milioni di afroamericani che non avevano il diritto di votare. Quella bandiera confederata portata in trionfo nella stessa aula del Senato che nel 1865 votò l’abolizione della schiavitù e che ieri ha assolto Trump, è il vero segno che la prossima guerra civile americana è cominciata senza che ce ne accorgessimo.

 

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