L’analista politico Amer Sabaileh: «Il re Abdullah è andato alla Casa Bianca soprattutto per convincere il presidente Usa che la Giordania è un alleato importante: il monarca si sta giocando tutte le carte perché il rischio di una destabilizzazione è molto alto». Il paese ha già una comunità di 2,5 milioni di palestinesi, ma al tempo stesso non può fare a meno degli aiuti americani
Oggi i profughi di Gaza, domani quelli della Cisgiordania. Questa è la sensazione che si ha ad Amman: accogliere tutti gli sfollati palestinesi che Usa e Israele stanno spingendo lontano dalle loro terre. Per questo il re giordano Abdullah II è volato a Washington per incontrare Donald Trump, ideatore di un piano senza precedenti nella storia: deportare forzatamente più di 2 milioni di abitanti per realizzare una riviera di lusso, quella che secondo lui può diventare «il diamante» del Medio Oriente portando «stabilità e pace nella regione».
I guai del monarca
La difficoltà del monarca giordano è emersa nelle poche e diplomatiche parole dette a seguito dell’incontro, nelle quali non risponde se accoglierà i palestinesi ma rilancia con un piano dei Paesi arabi che sarà reso pubblico non prima del 27 febbraio e al quale stanno lavorando anche Arabia Saudita, Qatar, Egitto e Emirati Arabi.
Abdullah II ha aggiunto una frase che è sembrata un modo per restare nelle grazie di Trump: «Finalmente vedo qualcuno che può portarci oltre il traguardo per portare stabilità, pace e prosperità a tutti noi nella regione», ha detto riferendosi al presidente statunitense. Sembrano lontane le dichiarazioni di alcuni giorni fa quando il re e il governo di Amman si dichiaravano contrari a «qualsiasi tentativo di annettere terre – riferendosi a Israele – e di sfollare i palestinesi».
La Giordania è strategica per gli Usa e lo Stato ebraico, entrambi i Paesi hanno rapporti militari ed economici. «Abdullah è andato alla Casa Bianca soprattutto per convincere Trump che la Giordania è un Paese alleato importante, il re si sta giocando tutte le carte perché il rischio di una destabilizzazione è molto alto», ci racconta l’analista politico giordano Amer Sabaileh, che sta seguendo la crisi politica interna che ha visto uno dei momenti di picco lo scorso venerdì, quando sono scese in piazza migliaia di persone contro il piano Trump. I cartelli e gli slogan scandivano parole contro il genocidio, altri chiedevano di trasferire gli israeliani negli Usa mentre altri urlavano «Palestina libera, dal fiume al mare».
Il piccolo Paese sulla sponda del fiume Giordano ospita la più grande comunità palestinese nel mondo: 2,5 milioni di abitanti arrivati nelle due grandi ondate del 1948 e del 1967, ovvero quando è nato lo Stato ebraico sul territorio della Palestina storica e quando Israele ha occupato altri territori durante la guerra dei Sei giorni, compresa Gerusalemme Est.
«Oggi non è pensabile di accogliere altri palestinesi, la crisi economica e sociale ha investito il Paese che ha bisogno di costanti aiuti da fuori, quelli che arrivano da proprio dagli Usa e che Trump potrebbe usare come leva per costringere Abdullah II ad accettare», aggiunge ancora l’analista Sabaileh.
Nell’ultimo decennio Amman si è fatta carico anche dei siriani in fuga dalla guerra civile, accogliendo un milione e 300.000 siriani, poco più di un decimo della popolazione locale che è di 11,3 milioni di abitanti. Dalla Siria in questi anni oltre ai profughi arrivava anche il Captagon, la droga che ha finanziato le casse del regime di Assad grazie ad un mercato internazionale legato al narcotraffico e che faceva della Giordania uno degli hub principali per lo smercio di questa droga sintetica, teoricamente messa al bando dal nuovo regime siriano di Hts.
La paura di una nuova ondata di palestinesi è legata anche al passato, al settembre del 1970 quando i gruppi armati palestinesi legati all’Olp hanno tentato di rovesciare la monarchia hascemenita di re Husayn di Giordania, golpe represso nel sangue nei mesi successivi fino all’abbandono della Giordania da parte dello stesso Olp. L’idea che l’estrema destra religiosa israeliana fa circolare è che la Giordania sia la vera Palestina, la terra promessa per il popolo che vive sotto occupazione. Questo preoccupa molto l’establishment di Amman.
Obiettivo Cisgiordania
«Il piano per sfollare Gaza è difficile sotto tanti punti di vista: logistico, democratico e economico, l’ultimo aspetto è quello che più può far ripensare la strategia a Trump», afferma ancora Sabaileh. Ma è impossibile guardare al piano del presidente Usa e non pensare alla Cisgiordania, vero obiettivo della destra religiosa al governo in Israele per realizzare quell’obiettivo «dal fiume al mare» che è alla base del Grande Israele.
Dall’inizio dell’operazione militare “muro di ferro” dello scorso gennaio sono circa 40.000 gli sfollati in Cisgiordania e l’offensiva sembra non arrestarsi in quelle terre del Nord che in Israele chiamano Giudea e Samaria e che rispondono ai nomi delle città palestinesi: Jenin, Tulkarem, Tubas e Nablus. Tutte a poche decine di chilometri dal confine giordano. «Questo potrebbe essere un obiettivo di Trump e Netanyahu, un sottinteso che potrebbe spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania, ma se dovesse riprendere l’offensiva militare nella Striscia anche i gazawi alla lunga potrebbero accettare di andare via semplicemente per sfinimento».
Il re Abdullah II si trova quindi in bilico tra la stabilità interna alla quale è legata la sua stessa monarchia, e quella esterna con i rapporti con gli Stati Uniti, dai quali dipendono la gran parte degli aiuti economici che permettono all’economia di Amman di non collassare.
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