Anche la Tunisia è un paese sicuro nel quale le persone migranti non correranno rischi se respinti o deportati: parola di Commissione Europea. Una notizia che arriva a poco più di una settimana dalla barbara uccisione – per mano della polizia tunisina – dei giovani Mustapha Tarawallie e Alseny Togbodoun, rispettivamente del Mali e della Guinea Conakry.

È accaduto nei campi informali che da ormai diversi anni ospitano circa 20mila persone in viaggio verso l’Europa, sparse tra gli uliveti di Al Amra e Jebeiana, a una trentina di chilometri da Sfax, città portuale del paese nordafricano.

Dallo scorso 4 aprile gli uliveti continuano a essere teatro di violenze sistematiche, incendi, deportazioni. «Una vera e propria caccia all’uomo nero, fomentata da una campagna governativa di odio xenofobo», dice a Domani l’attivista tunisino Majdi Karbai.

Caccia che stava per degenerare lo scorso 18 aprile, con l’ultimo raid della guardia nazionale al km 33 che ha bruciato la tenda del neonato di tre mesi Fatoumata Camara rischiando di ucciderlo. La scorsa settimana le violenze erano culminate con la morte dei due giovani che erano stati portati, il primo il 7 e il secondo il 9 aprile, nella tenda dove Patricia – infermiera guineana di 26 anni – svolge instancabilmente da due anni un servizio di primo soccorso fondamentale per le comunità dei campi, al km 33.

«Quando Mustapha è arrivato aveva un proiettile nel collo e la pelle lacerata, ho chiamato i soccorsi ma dopo ore di attesa sono arrivate tre auto della polizia: sono stata costretta a lasciarlo a loro. Poi è scomparso», confida in lacrime a Domani.

Sono a centinaia le persone sequestrate dalla polizia che scompaiono. «Si fingono operatori dell’Iom – continua Patricia – promettendo di riportare le persone che lo vogliono a casa. Poi li abbandonano in mezzo al deserto, subito dopo averli tolto cibo, telefono e scarpe».

Adesso anche la sua tenda-infermeria è stata distrutta, per la quarta volta nell’ultimo anno. «Dicono di smantellare le tende per spostarci in sistemazioni di accoglienza più consone, ma non è così. Vogliono che molliamo, che torniamo indietro», racconta Bairo, gambiano ventiseienne che vive al km 25 da due anni. «Vivevamo come animali già prima di queste rappresaglie», spiega invece Lamine, anche lui del km 25. «Beviamo l’acqua che usano per irrigare il suolo. È tossica, causa malattie cutanee e dobbiamo anche pagarla. Quella imbottigliata è troppo cara», aggiunge.

Il Mou con l’Europa

Sono gli efficaci risultati del memorandum d’intesa siglato nel luglio del 2023 tra l’Ue e la Tunisia di Kais Saied. Contenimento dei flussi migratori – senza remore sui metodi – in cambio di investimenti per lo sviluppo del paese. «Oltre a essere brutali, sono operazioni che non serviranno a nulla. Ricostruiranno sempre nuovi campi perché non hanno dove altro andare», riferisce Romdhane Ben Amor, del Forum tunisino per i Diritti economici e sociali. Ed è proprio quello che racconta Ibrahima, dottore – anche lui migrante, vive al km 30 – che insieme a Patricia e altri operatori sanitari ha fondato il Medical emergency network for refugees in Tunisia.

Sono pochi medici volontari, bloccati nel limbo tunisino, chi da un anno, chi da tre: grazie a loro la comunità sopravvive. L’infermiera Fatima, una di loro, è stata catturata dalla polizia e deportata nel deserto lo scorso 28 aprile mentre si dirigeva verso la tenda di un paziente malato. Ora si trova in Niger.

Mentre pochi giorni fa Ibrahima è stato intercettato dalla polizia e pestato a sangue. In videochiamata ci mostra tutte le tende ricostruite negli ultimi giorni. «Abbiamo appena finito di ricostruire quello che adesso è l’unico ospedale in tutti i campi, l’unico per 20mila persone», esordisce Ibrahima mentre invia in chat video di alcuni recenti interventi di sutura.

«Avevamo due tende ospedale anche in altri punti del campo, ma sono state distrutte nei giorni scorsi. Ora i soldi ci servono per le medicine più importanti, che spesso neanche ci vendono perché siamo migranti. Farle arrivare qui dall’Europa è impossibile», continua.

Ibrahima è stremato, ma la sua resistenza garantisce la sopravvivenza alle persone determinate a continuare il loro viaggio. «Cerco di tenere in piedi il minimo indispensabile affinché i miei compagni rimangano vivi. Se li portiamo all’ospedale tunisino spesso non li vediamo più», continua.

EPA

Stanno partendo raccolte fondi informali e qualche associazione si è già adoperata per aiutare alcune persone a ricostruire le tende. Non ci sono operatori umanitari sul posto, è troppo pericoloso. La solidarietà della società civile internazionale rimane ad oggi l’unico supporto su cui Ibrahima e Patricia possono contare. Nella Tunisia di Saied la repressione è totale. Da quando ha preso il potere per i migranti la vita è diventata un inferno. 

«Ormai aiutare le persone sub-sahariane è diventato reato. Le Ong tunisine che supportavano i migranti sono chiuse. Ma molte persone son dalla sua parte: ormai i discorsi xenofobi sul rischio di sostituzione etnica hanno fatto breccia. E la repressione di Saied è troppo dura», confida a Domani un artista di Tunisi, anche lui vuole rimanere anonimo.

«Sono già dieci le persone in galera per il supporto offerto alle persone migranti», dice Majdi Karmai. «Primi tra tutti Sherifa Ryahi e Mohamed Jouau ex presidente e tesoriere dell’associazione Tunisie terre d’Asile, perché, grazie all’aiuto di Mohamed Ikbel Khaled e Imen Ouardani – sindaco e vice-sindaco della città di Sousse – anche loro in carcere – avevano adibito una struttura pubblica per ospitare al sicuro diversi migranti».

Sono giorni duri per la libertà più in generale in Tunisia: è da poco concluso un maxi processo che ha sentenziato centinaia di oppositori politici a condanne tra i 13 e i 66 anni di carcere, con l’accusa di cospirazione contro lo stato.

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