Nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan una centrale nucleare e una a carbone sono molto più di semplici infrastrutture per la creazione di energia. Nel paese governato da vent’anni da un presidente sempre più autoritario e desideroso di trasformare la propria nazione in una potenza regionale, questi impianti sono a tutti gli effetti strumenti di politica estera utili per intessere relazioni con due grandi attori internazionali: la Cina e la Russia. Il tutto non solo a discapito del posizionamento della Turchia nel blocco occidentale, di cui dovrebbe fare a suo modo parte in quanto paese aderente alla Nato, ma anche della tutela dell’ambiente e della giustizia sociale. Temi questi ultimi tra loro correlati ma sempre meno importanti per Erdogan, interessato a sfruttare il momento di crisi internazionale derivante dalla guerra in Ucraina per rendere la Turchia un hub energetico regionale, anche a costo di cedere sovranità ai russi.

La centrale di Akkuyu

Il caso in questione è quello della centrale nucleare di Akkuyu, un progetto dal valore di 20 miliardi di euro che il governo turco ha appaltato all’azienda di stato russa Rosatom, su cui ricadranno in toto i costi di realizzazione.

La centrale è stata pensata per sopperire al 10 per cento del fabbisogno energetico del paese e il primo reattore dovrebbe entrare in funzione entro il 2023, in occasione del centenario della nascita della Repubblica turca. Il progetto è pensato per ridurre la dipendenza energetica della Turchia, ma in realtà la proprietà della centrale di Akkuyu resterà nelle mani della Russia per i prossimi venticinque anni.

«L’accordo per la realizzazione della centrale è molto strano», spiega Koray Dogan Urbarlı, co-presidente dei Verdi. «La proprietà continuerà a essere russa, per cui la Turchia dovrà comprare l’energia che verrà generata dalla centrale. In pratica il controllo dell’area su cui sorge l’impianto passerà a un paese straniero».

Per Urbarlı però non bisogna soffermarsi solo sul valore della centrale dal punto di vista energetico. «La Turchia sta cercando di essere più vicina ad altri governi grazie ad accordi di questo tipo». La Russia a sua volta sta usando l’energia nucleare per rafforzare la propria presenza in medio oriente, sfruttando a suo vantaggio il desiderio di alcuni paesi di produrre energia in loco o la debolezza dei loro governi, come nel caso siriano.

«Turchia, Siria ed Egitto, dove la Rosatom sta costruendo altre centrali, formano insieme un triangolo russo dell’energia atomica», prosegue Urbarlı, che sottolinea come queste infrastrutture siano un utile strumento in mano russa per esercitare la propria influenza sui governi stranieri.

L’impatto ecologico

Ma l’impatto della centrale di Akkuyu è rilevante anche sul piano ecologico. Prima di tutto, come evidenzia il co-presidente dei Verdi, l’infrastruttura sorge nei dintorni di Mersin, nella costa sud del paese, considerata una delle aree più calde della Turchia e in cui ogni anno si registra un aumento delle temperature. La centrale rappresenta inoltre un rischio anche per possibili incidenti. Un punto su cui si è espresso un anno fa lo stesso parlamento turco, favorendo ancora una volta la controparte russa.

Il 6 ottobre i parlamentari hanno approvato la legge numero 210, un accordo internazionale che tutela le terze parti in caso di incidenti e danni presso stabilimenti nucleari costruiti dai paesi stranieri. Il riferimento è evidentemente alla Russia. Ma a colpire è stata anche la tempistica dell’approvazione della norma. Il via libera è stato dato in concomitanza con la ratifica dell’Accordo di Parigi, procedura rimasta in sospeso per anni e usata dal governo più per avere fondi e per scopi propagandistici che non per tutelare realmente l’ambiente.

A dimostrare quanto poco conti l’ecologia per il governo in carica è la data scelta per il raggiungimento delle emissioni zero di carbonio, ossia il 2053. «Si tratta di una data simbolica, che coincide con il seicentesimo anniversario della presa di Costantinopoli», spiega Yagız Eren Abanus del Center for spatial justice (Mad). «Hanno anche un think tank apposito chiamato “Climate Shura” per ricollegarsi al simbolismo ottomano. Nella pratica però è stato fatto ben poco».

Il valore del carbone

Altra tappa nella riduzione delle emissioni inquinanti è quella del 2030, entro la quale è prevista una diminuzione del 21 per cento, ma l’obiettivo è difficilmente raggiungibile. La Turchia continua a puntare sul carbone come materia prima per la sua industria e ha registrato un aumento del 150 per cento delle emissioni inquinanti dal 1990 a oggi.

Secondo il Global carbon atlas, nel 2021 Ankara si è posizionata al quattordicesimo posto nella classifica mondiale dei paesi produttori di anidride carbonica e difficilmente riuscirà a ridurre le proprie emissioni nei prossimi anni. Anche perché il carbone rappresenta uno strumento di relazioni internazionali per il presidente Erdogan, a danno ancora una volta dell’ambiente.

Ad agosto di quest’anno ha iniziato a operare una nuova centrale a carbone costruita nel golfo di Alessandretta, sulla costa sud della Turchia, in un’area in cui si registrano già alte concentrazioni di anidride carbonica. Il progetto è stato realizzato grazie a un investimento da 1,17 miliardi di dollari delle maggiori banche statali cinesi nell’ambito della Belt and road initiative. Una volta terminata, la centrale avrà una capacità di 1.320 MW e dovrebbe fornire una quantità di energia pari al 3 per cento del consumo annuo di energia elettrica in Turchia.  

Ma anche in questo caso il valore dell’infrastruttura non è unicamente energetico. La presenza di ingenti quantità di capitali cinesi e l’inserimento del progetto all’interno della Belt and road initiative sono il segno di un rafforzamento dei legami economici ma anche politici tra Turchia e Cina, intervenuta più volte nel corso degli anni a sostegno del governo Erdogan. Ma questo particolare progetto contribuisce anche ad aumentare la dipendenza turca dalla Russia, nonostante la giustificazione alla base della sua realizzazione fosse proprio la riduzione dell’import di gas russo. Per poter alimentare la centrale, infatti, la joint venture sino-turca Emba acquisterà i 3 milioni di tonnellate di carbone necessari ogni anno per il funzionamento dell’impianto proprio da Mosca, a un prezzo scontato.

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Guerra e gas

Erdogan dunque non ha al momento alcun interesse nell’implementare politiche di de-carbonizzazione né a puntare sulle energie rinnovabili. Farlo potrebbe garantire al paese quell’indipendenza dalle importazioni estere di cui il presidente parla ormai da anni, ma comporterebbe dei cambiamenti a livello di relazioni internazionali dannosi per la politica estera perseguita dal presidente turco. Inoltre puntare sulle fonti fossili e sul gas serve a Erdogan anche per motivi interni.

«Le rinnovabili sono sempre meno costose, per cui sarebbe vantaggioso investire in questo settore, ma farlo vorrebbe dire perdere il controllo del settore energetico», spiega ancora Abanus. «Le grandi aziende che si occupano di estrattivismo o di realizzare le centrali sono legate al governo, per cui Erdogan può esercitare un controllo su di esse. Il sistema delle rinnovabili invece è decentralizzato, quindi sostenerlo vorrebbe dire cederne ai singoli il controllo». Uno scenario che non piace a un presidente noto per il suo crescente autoritarismo e per aver usato l’economia come trampolino di lancio del suo successo elettorale.

«Con la guerra la tendenza a investire sulle energie fossili aumenterà. Vladimir Putin ha proposto alla Turchia di diventare un hub regionale del gas e la questione è descritta in termini assolutamente positivi dai media locali».

Il progetto TurkStream

L’idea avanzata dal presidente russo è di esportare gas in Europa attraverso il TurkStream, gasdotto da 31,5 miliardi di metri cubi all’anno che connette Russia e Turchia attraverso il mar Nero per poi unirsi alle infrastrutture che riforniscono Bulgaria, Serbia, Ungheria e Austria.

Sulla fattibilità del progetto sono sorti diversi dubbi, ma la sua realizzazione segnerebbe un ulteriore rafforzamento dei legami tra Turchia e Russia, aumentando tra l’altro il prestigio internazionale di Ankara e rendendo il paese anatolico un vero hub regionale del gas. L’ampliamento del TurkStream però avrebbe un costo significativo in termini ambientali e sociali. «L’area interessata già in passato dal progetto è quella della Tracia, a nord-ovest di Istanbul. In caso di nuovi lavori le persone che vivono in quella zona e che sono già state costrette a lasciare le loro case saranno nuovamente spostate per fare spazio al gasdotto. Anche la deforestazione dell’area proseguirà», evidenzia il co-presidente dei Verdi.

Per il presidente turco però l’ambiente è un elemento largamente sacrificabile in cambio di un prestigio internazionale da lungo tempo agognato e che la guerra in Ucraina gli sta permettendo finalmente di raggiungere. Anche a costo di danneggiare il suo stesso paese.

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