Quella tra il 14 e il 15 maggio è stata una notte di festa e di speranze disattese in Turchia. Una parte della popolazione ha celebrato un risultato elettorale per nulla scontato, mentre un’altra ha visto svanire il sogno di un futuro migliore in un paese guidato da vent’anni da Recep Tayyip Erdoğan. Il presidente uscente infatti è riuscito ad ottenere più voti di Kemal Kılıçdaroğlu, leader del partito repubblicano Chp e rappresentante del Tavolo dei sei, alleanza formata da diversi patiti unitisi per sconfiggere l’attuale capo di Stato.

Nessuno dei due candidati però è riuscito ad ottenere i voti necessari per vincere al primo turno. Secondo i dati ufficiali del Consiglio elettorale supremo (Ysk), al presidente uscente è andato il 49,4 percento delle preferenze, mentre Kılıçdaroğlu si è fermato al 45 percento, deludendo le aspettative di chi fino all’ultimo ha creduto nella sua vittoria.

In alcune aree del paese gli elettori hanno così aspettato con ansia un risultato che non è mai arrivato, forti anche dei dati alternativi diffusi dall’opposizione, critica fin da principio verso le fonti ufficiali e preoccupata per possibili brogli elettorali.  A Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco, i clacson hanno risuonato per le strade già poche ore dopo l’avvio dello spoglio, ma nel giro di poche ore sulla città è calato un silenzio carico di disillusione mentre dal nulla comparivano sempre più camionette e auto della polizia.

Le aspettative per il successo di Kılıçdaroğlu e in generale dell’opposizione sono state in realtà alimentate anche dai sondaggi degli ultimi giorni, ma i risultati ufficiali hanno fotografato una realtà ben diversa tanto per le presidenziali, quanto per la composizione del nuovo Parlamento.

La coalizione del presidente uscente - formata da Giustizia e sviluppo (Akp), dagli ultra-nazionalisti di Mhp e dal Partito ultra-conservatore Nuovo benessere guidato dal figlio di Necmettin Erbakan, l’ex mentore di Erdoğan - ha ottenuto la maggioranza anche in Parlamento, arrivando ad occupare 326 seggi su 600. I repubblicani del Chp e il Buon partito (Iyi parti), seconda formazione più grande dell’opposizione, hanno invece vinto 213 seggi, mentre i filo-curdi si sono fermati a 62. Per lo Yeşil sol il risultato delle elezioni del 2023 conferma il successo già registrato alle amministrative del 2019, ma i filo-curdi puntavano ad ottenere cento seggi e ad espandere la loro base elettorale. Il loro successo invece si è limitato ancora una volta al sud-est del paese, ad eccezione delle aree terremotate.

Come previsto da diversi sondaggi, le zone colpite dal sisma di febbraio hanno invece votato in larga maggioranza per Erdoğan e la sua coalizione, confermando così una preferenza di voto già espressa nelle precedenti elezioni. Una conferma che si è registrata anche nei seggi esteri, in cui larga delle preferenze sono state a favore del governo in carica, soprattutto in Germania e Francia.

Il nazionalismo

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Il vero vincitore di queste elezioni, dunque, è il nazionalismo. L’Akp da solo ha ottenuto in parlamento il 35,4 percento delle preferenze, ma ancora più rilevante è il successo degli ultra-nazionalisti di Mhp, dati dai sondaggi intorno al 7 percento ma che sono invece riusciti ad arrivare al 10 percento.

Anche il 5 percento delle preferenze ottenuto dal candidato presidenziale ultra-nazionalista Sinan Oğan è la dimostrazione di quanto forte sia nel paese l’attaccamento alla nazione e a quei valori conservatori perfettamente rappresentanti da Erdoğan e dai suoi alleati.

Il presidente uscente ha saputo far leva si questi sentimenti in campagna elettorale, incentrando il suo discorso sul ruolo di potenza geopolitica giocato negli ultimi anni dalla Turchia e sull’espansione dell’industria della Difesa, utile tanto per il rafforzamento militare del paese quanto per l’espansione della sua influenza all’estero.

Erdoğan ha anche saputo presentarsi come l’unico in grado di garantire la ripresa economica del paese - nonostante la crisi della lira sia stata causata proprio dalle sue politiche monetarie - e la ricostruzione del paese post-terremoto. Un cambio ai vertici dunque è stato visto più come una minaccia che un’opportunità da molti, anche da chi non si riconosce nei valori dell’Akp ma teme di perdere i privilegi e le ricchezze accumulate nell’ultimo ventennio. Erdoğan inoltre ha saputo giocarsi ancora una volta bene la carta dei curdi, percepiti come una minaccia per la sicurezza e l’unità territoriale della Turchia anche da chi afferma di avere una visione meno conservatrice rispetto a quella del presidente.

Il secondo turno

Non tutta la Turchia però è dalla parte di Erdoğan. Un’altra metà del paese si ritrova negli ideali di libertà e giustizia sociale di cui il Tavolo dei sei e la formazione filo-curda si sono fatti promotori, segno di una spaccatura netta all’interno della società apertasi ben prima dell’arrivo al potere di Erdoğan ma ampliatasi sotto la sua presidenza.

L’opposizione però non è riuscita a raccogliere intorno a sé abbastanza consensi per ribaltare lo status quo e difficilmente riuscirà a farlo nel secondo turno. Ago della bilancia adesso è Oğan, che si è offerto di sostenere i Repubblicani in cambio dell’allontanamento dalla coalizione dei filo-curdi.

Anche con il suo appoggio, però, le speranze di vittoria di Kılıçdaroğlu non sono molto alte. La sconfitta in parlamento pesa sul successo dell’opposizione, che difficilmente sarà in grado di mobilitare un numero così alto di persone come al primo turno. La delusione tra i sostenitori di Kılıçdaroğlu e dalla sua coalizione è sicuramente tanta e per tanti altri elettori la soluzione migliore potrebbe essere quella di votare chi ha già il controllo dell’Assemblea parlamentare anziché alimentare la divisione politica di un paese già alle prese con crisi economica e con le conseguenze del sisma. La Turchia sembra avviarsi verso un altro quinquennio di Erdoğan, ma il prezzo da pagare rischia di essere molto alto.

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