L’incontro tra il presidente americano Joe Biden e quello turco Recep Tayyip Erdogan, previsto a margine del vertice Nato il 14 giugno nelle triste e grigia sede di Bruxelles, sarà franco e coprirà una vasta gamma di questioni controverse, compreso il delicato dossier del rispetto dei diritti umani, come ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan in un briefing alla Casa Bianca.

I due alleati della Nato hanno anche opinioni diverse sulla Siria, l’Iran, il predicatore Fetullah Gulen rifugiatosi in Pennsylvania, sul conflitto del Nagorno-Karabakh, sul genocidio degli armeni perpetrato dall’impero Ottomano nel 1915 e sulle ambizioni di petrolio e gas di Ankara nel Mediterraneo orientale, per non dimenticare il punto di maggior frizione, l’acquisto turco dei missili russi S-400.

Il ruolo potenziale della Turchia in Afghanistan a seguito del previsto ritiro degli Stati Uniti potrebbe invece diventare un’area di cooperazione.

I due presidenti si conoscono bene e Biden ha incontrato Erdogan diverse volte, l’ultima delle quali  a Istanbul a gennaio del 2016 quando era vice presidente.

Il primo viaggio di Obama

Lo stesso Barack Obama fece il suo primo viaggio all’estero fra l’altro proprio in Turchia, dove disse che gli «Stati Uniti non erano in guerra con l’islam» e che Washington sosteneva l’ingresso turco nella Ue, che così ne avrebbe guadagnato «dalla sua diversità di etnie, di tradizioni e fedi».

Obama restò per ben due giorni a Istanbul ed Ankara e indicò in un discorso la Turchia agli altri paesi mediorientali come esempio da seguire di un paese democratico a maggioranza islamica. Oggi il panorama è completamente cambiato.

Per decenni la Turchia è stata considerata un partner di importanza strategica dai presidenti americani. Ai tempi della crisi di Cuba con l’Unione Sovietica furono tolti in segreto dei missili Usa proprio dalla Turchia per risolvere il confronto tra Kennedy e Krusciov.

Più recentemente Donald Trump ha apprezzato lo stile autoritario di Erdogan e ha avuto un dialogo regolare con il presidente turco. Con Joe Biden, la natura di questa relazione è cambiata, deteriorandosi.

L’inquilino della Casa Bianca ha aspettato ben tre mesi prima di parlare con Erdogan al telefono, segnalando una retrocessione nella classifica della Turchia tra gli amici dell’America.

Successivamente, Biden ha poi rotto con un’altra tradizione tra i recenti presidenti degli Stati Uniti definendo i massacri di armeni nella Turchia di epoca ottomana come “genocidio”, un termine che ha scatenato l’ostilità di Ankara che sul tema è negazionista a oltranza.

Aspettative asimmetriche

Il disincanto tra le due capitali è reciproco. La leadership turca negli ultimi anni ha visto gli Stati Uniti con sospetto, con alti funzionari come l’allora ministro dell’Interno che hanno affermato che l’America era dietro il fallito tentativo di colpo di stato del luglio 2016. Una accusa mai dimostrata e smentita da Washington.

È in questo contesto di risentimento e sospetti reciproci che Biden ed Erdogan avranno il loro primo incontro faccia a faccia il 14 giugno a margine del vertice della Nato a Bruxelles. Cosa aspettarsi?

Ad Ankara le aspettative sono alte, a Washington che vede con molto sospetto i continui giri di valzer di Erdogan con Putin, molto meno. La speranza è che Erdogan riesca a convincere Biden che i loro paesi hanno interessi strategici reciproci. Un approccio che richiede agli Stati Uniti di affrontare le aree prevalenti di controversia.

E queste sono molte, inclusa l’acquisizione da parte della Turchia del sistema di difesa aerea e missilistica S-400 dalla Russia di Vladimir Putin, che secondo gli Stati Uniti rischia di compromettere la sicurezza della Nato; le relazioni americane con le forze democratiche siriane, che la Turchia considera troppo vicine a un gruppo terroristico curdo; il rifiuto da parte degli Stati Uniti sulle richieste della Turchia di estradare il religioso islamico turco Fethullah Gulen, oggi residente in Pennsylvania; e l’accusa a New York della banca statale turca Halkbank per presunte violazioni delle sanzioni iraniane il cui ceo è stato prima arrestato negli Usa e poi rilasciato e messo a capo della Borsa di Istanbul e infine messo fuori dai riflettori.

Erdogan vorrebbe coinvolgere Biden in negoziati su tutti questi problemi in sospeso giocando sulla possibilità di interloquire direttamente con Putin.

Mossa sbagliata. Funzionari dell’amministrazione Biden hanno inviato segnali di irritazione. Il segretario di Stato Antony Blinken ha scelto di non chiamare Ankara durante la recente guerra Israele-Hamas a Gaza dove Erdogan ha descritto Biden «con le mani sporche di sangue».

La Casa Bianca ha risposto invitando Ankara a non superare la linea rossa tra alleati Nato. La dottrina geopolitica prevalente dell’amministrazione Biden è focalizzata sulla rivalità dell’occidente con Cina e Russia, e un obiettivo chiave della politica estera è contenere i regimi autoritari, tra cui la speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, ha inserito anche la Turchia di Erdogan.

Vista da questa prospettiva, secondo Sinan Ulgen su Blomberg opinion, la Turchia non è più al centro delle sfide strategiche affrontate dagli Stati Uniti, e quindi la risoluzione delle richieste di Ankara non è una priorità americana.

Poi c’è la questione dello stesso Erdogan al potere dal novembre 2021. La sua calorosa relazione con Trump era destinata a renderlo sospetto agli occhi di un’amministrazione democratica.

A peggiorare le cose, Biden, desideroso di promuovere le libertà democratiche in patria e all’estero in uno slancio wilsoniano, in passato ha dichiarato la sua intenzione di sostenere l’opposizione politica in Turchia dove da ultimo il sindaco laico di Istanbul Ekrem Imamoglu, rischia una pena di 4 anni e un mese per aver «insultato» la commissione elettorale che aveva annullato la sua prima vittoria.

Imamoglu, visto come candidato anti Erdogan alle prossime presidenziali, vinse nel 2019 il secondo round di elezioni comunali con uno scarto maggiore.

Nonostante tutte queste circostanze poco promettenti, i due presidenti potrebbero fare progressi sulla questione dei missili S-400, che a sua volta potrebbe preannunciare l’inizio di una relazione meno conflittuale.

Il posizionamento del Congresso

La posizione americana si è rafforzata dall’adozione da parte del Congresso del National Defense Authorization Act, che stabilisce che la Turchia deve «cessare la proprietà» del sistema S-400 prima che le sanzioni statunitensi possano essere revocate.

Nel frattempo i nuovi jet F-35 americani saranno venduti alla Grecia ma non alla Turchia.  Questo della cessazione di proprietà degli S-400 è una richiesta difficile da accettare per una leadership turca che ha sostenuto incessantemente l’acquisizione dei missili russi come segno delle crescenti ambizioni regionali e dell’autonomia strategica del paese della Mezzaluna sul Bosforo che non vede limiti alla sua sfera di influenza neo-ottomana giunta fino alla Libia, Somalia e Caucaso.

Ma Ankara potrebbe essere in grado di accettare un accordo in cui può utilizzare il sistema solo in circostanze eccezionali che mettono in pericolo la sicurezza nazionale turca.

L’installazione degli S-400 presso la base aerea di Incirlik, utilizzata dagli Stati Uniti, da cui sarebbero state trasferite per precauzione le bombe atomiche Usa nelle basi italiane, consentirebbe di monitorare da parte americana la conformità agli accordi. Ma per Erdogan sarebbe uno smacco pesante.

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