Io, come tutti, Jake Angeli l’ho visto solo in fotografia. Sarà dunque legittimo trattarlo come immagine, oltre che come presenza reale. Il simbolismo dei tatuaggi, il volto pitturato, il copricapo con le corna sono già stati oggetto di esegesi. Tuttavia, ancora prima di chiederci che cosa significhi un’immagine del genere, credo valga la pena chiedersi che “tipo” di immagine è, cominciando dal fatto che pretende di essere interpretata.

Non è per niente scontato: nella società di massa solo una minuscola parte delle immagini con cui abbiamo a che fare chiedono a chi le guarda di essere davvero comprese. Provo a spiegarmi meglio: lo scorso anno, durante una ricerca universitaria sull’idea di brand, con un gruppo di studenti ci eravamo piazzati davanti a un negozio della Lacoste e chiedevamo agli avventori cosa significasse il coccodrillo. Su circa 600 intervistati nessuno ha saputo rispondere.

Simboli da decifrare

Jake Angeli al contrario impone a chi lo guarda una decifrazione dei tanti simboli di cui è ricoperto. La sua è un’iconografia incentrata sul sincretismo, cioè sulla compresenza di segni provenienti da ambiti distanti e disomogenei. Per intenderci se Topolino si mette la maschera di Batman ci troviamo di fronte a un evento sincretistico. Ora, però, il fatto cruciale è che il sincretismo è la cifra dei nostri tempi, basti pensare alla moda: mettere insieme un cappello peloso con la bandiera americana non ha nulla di originale che non abbiamo già visto in una qualsiasi sfilata di haute couture.

Angeli indossa un copricapo di pelo munito di corna dal sapore vichingo (solo il sapore, nulla di filologico) con vaghe reminiscenze di Davy Crockett: ciò che conta non è tanto la vichinghitudine quanto il vessillo di una ruvidezza primigenia. È il conflitto tradizionale tra natura e cultura: dove la cultura sarebbero le giacche e i tailleur, i codici di Bill Gates e di Hillary Clinton “cospiratori pedofili” che vogliono conquistare il mondo (secondo la teoria QAnon). Il copricapo di pelo si contrappone insomma, per metafora, alle perle indossate da Nancy Pelosi: se le perle significano lo stare dentro una regola condivisa, il pelo rivendica la naturalità e la spontaneità che la classe al comando vuole negare al popolo.

Il volto dipinto viene invece da un altro ambito, probabilmente quello sportivo. Già Giulio Cesare racconta che i popoli del nord andavano in battaglia col volto dipinto, tuttavia – senza nemmeno dimenticare le scene di Braveheart di Mel Gibson – il volto di Angeli è più affine a quello di un generico tifoso da stadio. Il volto pitturato significa la partigianeria: io tengo per una squadra, quella trumpiana.

Il terzo elemento sono i tatuaggi. Sono comparse le interpretazioni più diverse: mitologie nordiche, culti misterici, esoterismi random. Ma la vera domanda è un’altra: quei segni sul corpo a chi parlano? Chi li capisce così, a colpo d’occhio, senza ragionarci su? C’è da dire che i tatuaggi funzionano quasi sempre attraverso assonanze personali e sotterranee: quando qualcuno si fa un tatuaggio, anche se si tratta di un amico che conosciamo bene, dobbiamo spesso chiedere il perché di un certo disegno sulla pelle.

Nondimeno un tatuaggio pubblico non è un fatto privato e, nella società di massa, un segno che non è immediatamente intellegibile a chi si rivolge?

Il colore rosa

Un po’ meno di settant’anni fa, c’è stato un altro personaggio che è entrato a Capitol Hill con un abito talmente estremo che ha fatto parlare di sé.

È il 20 gennaio 1953, il giorno dell’insediamento di Dwight Eisenhower come trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti e, con lui, compare la moglie, Mamie Eisenhower vestita con un abito di seta rosa tempestato di duemila strass. Il rosa era il colore preferito dalla signora Eisenhower, in realtà senza nessun significato particolare, le piaceva e basta, in un’epoca – si badi bene – in cui il rosa non andava di moda. Fu un evento. Grazie al potere mediatico di Mamie il rosa divenne nel decennio successivo il colore femminile per eccellenza (potremmo chiamarla una influencer ante litteram) e il rosa, che non era legato in senso stretto alle donne, lo divenne in modo vincolante.

Secondo i commentatori la distinzione tra rosa e celeste come questione di genere nasce da qui (solo vent’anni prima il rosa era il colore chic della camicia maschile). Ma la storia non è finita. Quando, sei anni dopo, la Mattel lancia la Barbie – il giocattolo di maggior successo della storia dei giocattoli – sceglie come colore quello più di moda tra le ragazze: il “rosa Mamie” che dal quel momento in poi diventa la tinta girly per eccellenza.

Mamie aveva idee precise sul suo ruolo e su quello delle donne: «Mio marito governa il paese, io governo in cucina», diceva. Tuttavia non c’era nessun legame pregresso tra il rosa e quel tipo di femminilità conservatrice: è la signora Eisenhower che lo impone. In questo senso il vestito di Mamie non è un vestito “significante” quanto piuttosto un vestito “modello” che si diffonde per imitazione. Ovviamente ogni dettaglio è studiato con finezza semiotica: se a Capitol Hill si fosse presentata Elizabeth Taylor avrebbe potuto indossare un abito tempestato di diamanti, il fatto che Mamie scelga gli strass (che sono fondamentalmente pezzi di vetro scintillanti di nessun valore) è l’immagine perfetta di una first lady che non ambisce al ruolo di Maria Antonietta ma a quello di casalinga di grado eroico. In questo contesto la significazione è chiara. Tutti hanno capito cosa c’è da capire, e Mamie lo sa.

Fraintendimenti

Ma torniamo a Jake Angeli. La maggior parte del pubblico che ha assistito all’attacco di Capitol Hill ha decifrato l’evento per sommi capi, ma non ha la più pallida idea di cosa significhino i simboli di cui Angeli si ricopre. È passata l’immagine di una generica invasione di barbari, di lanzichenecchi che profanano il tempio. Sincretismo appunto, ma sfocato, impreciso, come di chi si addormenti guardando un episodio di Game of Thrones e si risvegli durante un telegiornale. È per questo che sono fioccate sui giornali molte guide alla lettura del “personaggio Angeli” guide che, ironia della sorte, somigliano alle carte dei giochi di ruolo in cui si spiega un certo personaggio e quali poteri possiede: l’ascia fatata, il triangolo magico, lo scettro del comando.

Le ipotesi sono varie e non possiamo scartarne nessuna: la più semplice è che Angeli sia un mitomane in cerca di attenzione (non per questo meno pericoloso) e che, come tanti paranoici, peschi da un immaginario tanto astruso quanto solitario. L’altra possibilità è che si rivolga a una setta di iniziati di cui noi, spettatori generici, non comprendiamo i codici: lo sciamano di un sistema rosacrociano da cui siamo esclusi. La società di massa, però, degli esoterismi se ne fa ben poco. Per questo in prospettiva storica non è secondario chiedersi se l’abito di Angeli possa avere un potere di penetrazione pari a quello di Mamie Eisenhower. Insomma: se quello di Mamie è un “vestito-modello” che funziona attraverso l’imitazione, quello di Angeli è un “vestito-opinione” concentrato solo a affermare la propria esistenza.

Non è un caso che la prima forza di propagazione dell’immagine “Angeli” sia stata il meme, la parodia, la citazione e la metacitazione sui social. Se un’opinione è in grado di diventare “modello” lo sapremo dopo un sufficiente lasso di tempo. Tuttavia qualche cosa possiamo già dirla. La mise di Angeli acquista senso perché vista davanti al nitore di Capitol Hill: è il neoclassicismo del campidoglio a conferire a Angeli la statura di lanzichenecco, così come è il ruolo di first lady a conferire al vestito rosa un potere modellante.

Le immagini sono in grado di agire solo se qualcuno glielo consente. Bisogna dunque spostare la domanda dall’abito al contesto: chi ha permesso a Angeli di occupare quella scenografia? Il ruolo delle forze dell’ordine in relazione all’idea di democrazia è parte fondamentale del futuro di questa e di altre immagini simili. Se cancello il Campidoglio dietro a Angeli ottengo una figura più opaca, il cosplay di un fumetto inesistente dove il sincretismo si risolve in decorazione.

 

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