Oggi a Roma il secondo round dei colloqui con Teheran mediati dall’Oman: le parti sono interessate ad un accordo nonostante le minacce di Netanyahu. Le ipotetiche garanzie? Nello schema della Casa Bianca le dovrebbe dare Mosca
Va in scena a Roma il secondo colloquio tra Usa e Iran sul nucleare, anche se a mediare sarà ancora l’Oman. Una sede negoziale, quella dell’Urbe, gradita a entrambe le parti. Agli Usa per lo «speciale» rapporto che Donald Trump intrattiene con Giorgia Meloni, all’Iran perché consente di ricordare al governo italiano di non essere interlocutore solo durante crisi acute o nei casi di detenuti da liberare.
Alla Casa Bianca, poi, la dislocazione in riva al Tevere è occasione per mandare definitivamente in soffitta l’inviso gruppo E3, composto da Francia, Germania e Regno Unito, che Obama aveva associato al Jpcoa, appunto l’accordo sul nucleare.
Washington infligge così uno schiaffo anche agli strenui critici continentali dell’apertura a Putin sul fronte ucraino, ridando un qualche ruolo nella partita del nucleare iraniano all’Italia che da quel processo si era in passato autoesclusa in nome di antichi riflessi condizionati. Del resto, nel mondo trumpiano, fatto di castighi e premi costantemente elargibili e ritrattabili, le ricompense sono parte integrante del bargaining.
«Brutte cose»
Il nuovo round tra americani e iraniani ha l’obiettivo di appurare se le parti sono interessate a marciare sulla strada del negoziato, sul quale incombe la minacciosa scadenza fissata da Trump nella lettera a Khamenei in cui prometteva «brutte cose» in caso di mancato accordo.
Ma cosa spinge The Donald, uscito durante il suo primo mandato dall’Jpcoa, a negoziare con Teheran? La sua pur estemporanea seconda amministrazione pare intenzionata a: ridurre l’esposizione strategica Usa in settori ritenuti non vitali per gli interessi a stelle e strisce, come l’Europa dell’est, ormai riconosciuta area d’influenza del ricostituendo impero russo, e il Medio Oriente; impegnarsi, senza troppe distrazioni, nel teatro indo-pacifico, considerato decisivo nello scontro tra l’Aquila americana e il Dragone cinese per il controllo del mondo.
I sì e i no a Netanyahu
Da qui i sì e i no a Netanyahu: mano libera a Gaza, e in Cisgiordania, ritenute essenzialmente “affare interno” israeliano, stop, invece, alla proposta del bellicoso premier di sradicare militarmente il potenziale nucleare iraniano, operazione che, per Washington, rischia di essere foriera di una nuova “irachizzazione” regionale. Impossibile, del resto, nel caso di tracollo del regime innescato da un bombardamento israeliano con l’attiva assistenza americana, tenersi lontano dalla contagiosità mediorientale. E non solo a causa delle possibili reazioni militari iraniane.
Gli Usa sono consapevoli di non poter contare su un’opposizione interna capace di surrogare, senza sostegno esterno, l’ingombrante regime. Non paiono in grado di svolgere un simile ruolo: né la diffusa opposizione sociale, tanto irriducibile perché produce delegittimazione del potere in luoghi sociali che, per ampiezza e impoliticità, si sottraggono a un’efficace sovranità repressiva, quanto debole perché priva di quel sapere, di quell’esperienza organizzativa, di quella convinzione militante, che contraddistinguono soggetti politici non effimeri; né opposizioni passatiste come gli eredi dell’ex-shah Pahlavi o di spericolate formazioni ex-rivoluzionarie anti-islamiste.
Turbanti ed elmetti, poi, possono contare su un’ampia forza militare e sull’appoggio di milioni di persone legate al “sistema”. Insomma, alla Casa Bianca, come a Foggy Bottom e al Pentagono, sanno che non basta bombardare e far cadere un regime per garantire stabilità al paese. E Trump ha altre urgenze che occuparsi di una nuova instabilità mediorientale.
La scommessa Usa
La scommessa americana è quella di neutralizzare l’Iran attraverso la filiera del Cremlino, al quale si concedono le spoglie dell’Ucraina anche in cambio di impegni “moderatori” da onorare altrove: come nello scacchiere iraniano. Non è un caso che alla vigilia dell’incontro romano, Khamenei scriva a Putin definendo la Russia «partner strategico» e che il ministro degli Esteri iraniano Araghchi incontri il suo omologo Lavrov.
È a Mosca che Teheran chiede garanzie per siglare l’accordo che potrebbe avere come esito la rinuncia al nucleare militare - non certo a quello civile, prospettiva definita «irrealistica» - in cambio dell’assicurazione di non venire attaccata e alla rinuncia al regime-change. Prospettiva su cui convergono non solo le fazioni politiche di “sistema” al governo, come conservatori e riformisti gradualisti, ma anche i Pasdaran, decisi a giocarsi le proprie carte nel momento della successione a Khamenei.
Logico corollario a un’intesa benedetta da Mosca, la fine delle sanzioni evocata dal segretario agli Esteri Usa Marco Rubio, oggetto del desiderio non solo dei molti iraniani che aspirano a una vita quotidiana meno soffocata, ma anche dalle scalpitanti aziende Usa decise a conquistare un mercato di quasi 90 milioni di consumatori.
L’obiettivo di Washington è staccare la Russia, e dunque per transitiva proprietà imperiale anche l’Iran, dalla Cina, che pure ha contribuito a alleviare l’isolamento economico di Teheran acquistandone il reietto e poco raffinato greggio.
In questa duplice prospettiva, ispirata all’ormai consolidato canone politica-affari, il sin troppo pragmatico Trump è disposto a fare concessioni sconcertanti per i convinti sostenitori del fu Asse del Male: ma niente per The Donald è davvero cattivo se rafforza il potere americano e produce denaro. Anche se, è bene ricordarlo, nulla come il momentum è soggetto all’inclinazione della bilancia.
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