Giunti ormai quasi al decimo mese di conflitto «ancora assistiamo agli errori e agli orrori della guerra in Ucraina che ha avuto inizio con l’aggressione perpetrata dall’esercito della Federazione Russa. Di fronte alle immagini che ogni giorno, ormai dal 24 febbraio scorso, ci vengono proposte, c'è il rischio dell'assuefazione. Finiamo quasi per non fare più caso alle notizie della pioggia di missili distruttivi – le armi intelligenti non esistono – dei tanti morti civili, dei bambini rimasti sotto le macerie, dei soldati uccisi, degli sfollati di un paese disastrato dalle città semi distrutte senza energia elettrica, dell'ambiente devastato». Così il cardinale Pietro Parolin ha aperto il suo intervento al convegno “L’Europa e la guerra, dallo spirito di Helsinki alle prospettive di pace”, promosso dall’Ambasciata italiana presso la Santa sede in collaborazione con la rivista di geopolitica Limes e i media vaticani.

Il cardinale ha lanciato la proposta di una grande conferenza di pace promossa dall’Europa, sul modello di quella che a Helsinki portò a un accordo generale sulla distensione nei rapporti fra blocco occidentale e Unione sovietica. Una nuova distensione, insomma, per ricostruire il tessuto dei rapporti internazionali oggi lacerato dai tanti conflitti che percorrono il mondo a cominciare dalla guerra in Ucraina.

Le minoranze

Foto LaPresse

Già nei giorni scorsi il cardinale era tornato a offrire la mediazione del Vaticano fra Mosca e Kiev, in quanto soggetto neutrale rispetto alla contesa in atto. «Siamo disponibili – aveva affermato Parolin – credo che il Vaticano sia il terreno adatto. Abbiamo cercato di offrire possibilità di incontro con tutti e di mantenere un equilibrio. Offriamo uno spazio in cui le parti possano incontrarsi e avviare un dialogo».

Ma dal Cremlino arrivava un rifiuto netto all’offerta della Santa sede. Bruciano ancora, infatti, le parole dette di recente dal papa alla rivista dei gesuiti America con le quali Francesco accusava lo «stato russo» dell’invasione, mentre le maggiori crudeltà sul terreno, aggiungeva, erano state commesse da buriati e ceceni.

Un’affermazione che mandava su tutte le furie l’entourage di Vladimir Putin perché coglieva un punto debole del Cremlino. Smontava infatti il mito dell’unica nazione russa composta da compagini etniche poste su un piano di uguaglianza e fraternità, e raccontava implicitamente un’altra verità: quella di una guerra combattuta con ferocia da minoranze già emarginate e impoverite (non a caso una di fede musulmana l’altra buddista, non proprio il modello del cristianesimo nazionalista propagandata dal patriarca Kirill) e ora mandate a fare il lavoro sporco in Ucraina.

Non a caso la proposta di Parolin è stata respinta al mittente dalla portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, che ha commentato: «Temo che i fratelli ceceni e buriati, oltre a me, non lo apprezzerebbero. Per quanto ricordo, non ci sono state parole di scuse dal Vaticano».

Inviolabilità delle frontiere

Foto LaPresse

Le relazioni fra Mosca e la Santa sede, del resto, si sono raffreddate non poco da quando il papa ha assunto una posizione di condanna più esplicita dell’aggressione russa, senza per questo rinunciare a compiere ogni sforzo diplomatico possibile per aprire un negoziato.

Due fattori hanno accentuato questo passaggio: in primo luogo la Santa sede ha cominciato a registrare, attraverso i propri canali, le atrocità commesse dai russi in Ucraina (nella lettera indirizzata al popolo ucraino il papa parla apertamente di «terrore scatenato da questa aggressione»), al contempo i bombardamenti di queste settimane mirati a lasciare al freddo e a buio la popolazione per indurla a fuggire, non potevano passare inosservati in Vaticano, pena il rischio di un silenzio che avrebbe potuto pesare anche in futuro.

Non c’è dubbio, inoltre, che a guidare la reazione della chiesa di Roma verso il conflitto sia stato sempre di più il segretario di Stato Parolin che ha collocato la posizione del papa di netta contrarietà alla guerra e di denuncia di una possibile escalation nucleare, all’interno di una solida cornice diplomatica, evocata ancora ieri quando ha chiesto «di recuperare lo spirito di Helsinki».

«Torniamo a rileggere – ha detto – la Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti che venne inserita nell'atto finale. Un decalogo che prevedeva rispetto dei diritti inerenti alla sovranità, non ricorso alla minaccia o all'uso della forza, inviolabilità delle frontiere, integrità territoriale degli Stati, risoluzione pacifica delle controversie, non intervento negli affari interni, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione e credo, uguaglianza dei diritti e autodeterminazione dei popoli, cooperazione fra gli Stati, adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale». Una serie di richiami che hanno fatto fischiare le orecchie principalmente a Mosca e qualcosa pure a Kiev.

Altro aspetto importante sollevato da Parolin nel suo intervento, infine, è quello relativo al ruolo autonomo dell’Europa, della società civile e dei movimenti per la pace nella promozione di una grande conferenza per riscrivere i principi su cui fondare nuove relazioni internazionali; «L’Europa torni ad essere faro di una civiltà fondata sulla pace, sul diritto e sulla giustizia internazionale», ha detto il cardinale.

© Riproduzione riservata