Il complesso etnografico “Villaggio ucraino”, a Buzova, 40 chilometri a ovest di Kiev, era un posto dove i cittadini chiusi negli anonimi e smisurati palazzoni grigi si rifugiavano nella loro idea di Ucraina, bucolica e pacifica: casette coi tetti di paglia dipinte a colori vivaci, un ristorante che serviva cibi tradizionali; le cameriere in costume tradizionale.

A Oksana, la proprietaria, era sembrato un posto logico dove andarsi a rifugiare, anziché attendere un bombardamento su Kiev. Invece è stato un tragico errore: il villaggio si è trovato proprio sulla direttrice di invasione russa e della resistenza ucraina. I carri venivano distrutti, e gli equipaggi si mettevano in salvo dandosi alla razzia. Nuove colonne si aggiungevano, radendo al suolo tutto quello che avevano intorno. Ci siamo detti addio in video.

Oggi mi racconta che è in salvo, nei Carpazi. Nove chili e tanti capelli in meno, persi per il terrore: «Sono evasa ieri dall’occupazione. Nove giorni senza luce, calore, comunicazione, in cantina, dove quasi cinquanta ospiti sono rimasti bloccati, dodici dei quali bambini. Tutti sono usciti sani e salvi. Il rumore delle bombe, dei colpi dei cecchini, degli elicotteri sopra le nostre teste era il più insopportabile da sentire. Ho dormito in giacca e scarpe tutti questi giorni, con il dito sul bottone della torcia, come il grilletto di una pistola immaginaria. Bucha, Irpin, ieri Kotsyubynske sono in condizioni peggiori di Buzova. Taccio sulle grandi città pacifiche. Piango per gli animali terrorizzati nel nostro zoo, che non saranno nutriti domani, dai bambini con dolcetti per loro! E per le vite distrutte di milioni di persone».

Abituati a soffrire

Racconti strazianti come questo mi arrivano quotidianamente sul telefono: non ho bisogno di accendere il televisore. Le tante persone che conosco in questo paese dove ho vissuto e lavorato a lungo mi inviano messaggi e foto della tragedia, in diretta. Sono tristi, increduli, ma furiosi e determinati a resistere. L’Ucraina è così: abituata a soffrire e andare avanti.  

Il villaggio di Oksana non esiste più, è andato in fiamme. In tutto non valeva il costo di una granata. Perché prendere di mira le campagne, gli ospedali? Puro e semplice terrorismo. Fallito il blitz su Kiev, occorre che fugga quanta più gente possibile. Perché prendere Kiev è tutt’altro che facile.  

Occupata dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, le case della strada principale, Kreshatik, tutte abitate da ufficiali nazisti, erano state fatte saltare in aria con bombe radiocomandate lasciate apposta nelle cantine. Ricostruita da Stalin in modo grandioso, la città, la seconda dell’Unione sovietica, è stata anche ben attrezzata per un lungo assedio.

La metropolitana è magnifica ed efficiente, ma profondissima: con le rapide scale mobili è come scendere in miniera. È stata pensata assai più come un rifugio antiaereo che come un mezzo di trasporto. Altri rifugi sono dappertutto in città. Poi, il Dnepr è un fiume enorme e la taglia in due, e i ponti sono ovviamente minati.  

Certo, l’esperienza di Groznyj dimostra che i russi non avrebbero scrupoli a radere una città al suolo. Termini come “bombe intelligenti”, “operazioni chirurgiche”, “guerre umanitarie”, sono eufemismi inventati per farci credere che la guerra è cosa pulita e persino telegenica; ma Putin non si deve preoccupare di un’opinione pubblica dalla lacrimuccia facile. Un popolo che ha resistito agli assedi di Leningrado e Stalingrado sa che la guerra è lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi, dove l’umanità è bandita.

La propaganda russa lavora internamente a pieno regime e il dissenso è proibito e punito con quindici anni di reclusione. La contrarierà alla guerra esiste, si manifesta come può, ma riguarda – per quanto ne sappiamo – le classi colte, ricche, intellettualmente vivaci e filoeuropee di Mosca e San Pietroburgo, oltre che i russi all’estero. Chi ha accesso a informazione indipendente. Nella Russia profonda, estesa oltre l’immaginabile, dove il resto del mondo è un’astrazione, chissà?

Perché la guerra

Perché questa guerra? C’è una frase di Putin, rivelatrice della sua visione del mondo: «La strada a Leningrado, mi ha insegnato una lezione: se la rissa è inevitabile, colpisci per primo». Cosa lo ha convinto che era ora di colpire per primo?

L’Ucraina ha subìto il colpo non perché rappresentasse un pericolo, ma proprio perché non lo era. La leadership ucraina ha continuato ingenuamente a chiedere di entrare nella Nato, pur se le sue prospettive di adesione erano nulle. Putin lo sapeva bene: ha dunque voluto far vedere che il re è nudo, e chi si fida troppo dell’occidente fa una brutta fine. Non ha attaccato perché ha paura della Nato, ma proprio perché non ne ha più paura.   

Il presidente Zelensky ha fatto di tutto, durante il 2021, per ottenere udienza da Joe Biden. Ma era abbastanza chiaro che le priorità strategiche di questa amministrazione erano altrove, nell’Indopacifico, dove si gioca la partita per la supremazia degli Stati Uniti. Quando finalmente, di fronte alla minaccia russa sempre più evidente, Biden ha cominciato ad alzare il livello di attenzione, è stato Zelensky a minimizzare. Si era reso conto della trappola in cui si era cacciato? Le dichiarazioni di appoggio all’Ucraina si moltiplicavano, la politica della porta aperta della Nato era ribadita in via di principio, ma negata in via di fatto. Soprattutto americani, britannici, canadesi, cominciavano ad abbandonare, pur lasciando armi in abbondanza: via i consiglieri militari, i diplomatici, la cooperazione internazionale di USaid, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale. Via tutti, e di corsa.

Non lo si poteva dire con più chiarezza, che gli ucraini erano soli con sé stessi.

La storia ci dirà se si è trattato di un errore di comunicazione, come quello che ha dato via libera a Saddam per l’invasione del Kuwait; o del deliberato calcolo di lasciare a Putin la polpetta avvelenata perché ci si strozzasse, decretando la sua fine politica. Nel tiro alla fune, si può sempre mollare e lasciare l’avversario gambe all’aria. Hillary Clinton ha candidamente paragonato l’Ucraina all’Afghanistan, dove i russi si erano impantanati in un conflitto decennale. Dimenticando però che l’Afghanistan ha poi inghiottito anche gli Stati Uniti, e che le conseguenze di quel conflitto le paga tuttora il popolo afghano.

Gli ucraini dunque, prima speranzosi di un aiuto, adesso si sentono abbandonati: a giudicare dal mio limitato osservatorio, mentre si stanno difendendo dai russi, non nutrono nemmeno molta fiducia nell’occidente. Dovunque si voltino, vedono tradimento.

Il presidente legittimo

Sui passati errori politici di Zelensky è oggi facile maramaldeggiare. Gli va però riconosciuto che, smessa la veste ufficiale che lo impacciava, e recuperata la sua vera vena, quella di attore, recita la parte del presidente di guerra con immedesimazione, comportandosi con coraggio e dignità di statista, e non lesinando sferzante ironia. Agli americani, che gli suggerivano di seguirlo nella fuga abbandonando il paese, ha risposto: «Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio». A Putin che mette distanze siderali tra sé e i suoi collaboratori più stretti, replica con selfie dove tutto il governo sta in maglietta militare e abbracciato, come un gruppo di amici uscito da una partita di calcetto.

Nella guerra mediatica tra i due Vladimiri – il russo inespressivo, gelido ed enigmatico, e l’ucraino illuminato da un sorriso da bravo ragazzo capitato in una rissa per caso – vince di sicuro il secondo. Nel Ventunesimo secolo l’immagine e la comunicazione contano più che mai.

Peraltro, i russi – dopo aver tentato di ammazzarlo – riconoscono in Zelensky il legittimo presidente, e questo è un dettaglio non da poco: perché una parte della narrativa russa, da otto anni a questa parte, ha negato legittimità all’attuale regime di Kiev, sorto a loro dire da un golpe fascista e antirusso (Euromaidan) diretto a spodestare il presidente eletto, Yanukovich; perché i russi, partiti con l’idea di instaurare un governo fantoccio, magari con l’aiuto dei militari, si sono resi presto conto che nessuno è disponibile a un golpe; perché un’operazione iniziata per “denazificare” l’Ucraina non può concludersi con l’eliminazione del suo presidente ebreo; infine perché, se l’idea era di far crollare lo stato ucraino, questo, almeno nelle strutture civili, è già ben poca cosa: finito il controllo civile sui militari, la guerra si trasformerebbe in guerriglia.

L’assenza di un potere centrale forte, esiziale in tempo di pace, si sta dimostrando, per l’Ucraina in guerra, un elemento di forza e flessibilità. Quindi Zelensky è necessario: il quesito è se, al momento di trattare, e fatalmente, di fare concessioni, saprà farlo – e se gli sarà permesso di farlo dai suoi.

Resistenza popolare

È materia di dibattito tra gli studiosi di strategia militare se l’avanzata non certo fulminea dei russi sia scelta deliberata o imposta da errori di programmazione. Sembra confermata – anche per la presenza di soldati di leva – la tesi iniziale secondo cui il grosso dispiegamento di forze, durato tutto l’inverno, ai confini dell’Ucraina, fosse più a scopo intimidatorio che in preparazione a un’aggressione.

Le operazioni, oltre che su Kiev, sono concentrate soprattutto sull’est russofono: eppure da nessuna parte gli invasori vengono accolti come liberatori, né essi hanno fatto nulla per presentarsi come tali. Nel 2014 i crimeani, in maggioranza russi etnici, hanno accettato di buon grado l’annessione alla Russia, perché incruenta, e poi perché significava un deciso miglioramento del loro tenore di vita, mentre l’Ucraina era allora uno stato fallito. Oggi i russofoni difendono le proprie case bombardate indiscriminatamente. A Kharkiv sono russi come al di là del vicino confine, ma la lingua comune serve solo a far capire ai soldati di Mosca gli insulti che ricevono.

La resistenza popolare è palpabile. Anche se l’esercito, 250mila uomini, dovesse essere sconfitto, ci sono 400mila riservisti che hanno già fatto otto richiami, e conservano spesso un fucile in casa. Chi ha vissuto in epoca sovietica ha fatto la premilitare a scuola, e sa smontare un’arma, anche le donne. Molti si arruolano nella Teroborona, la milizia territoriale, o direttamente nell’esercito: il giudice della Corte Suprema Ivan Myschenko, smessa la toga, ha indossato la mimetica e imbracciato il kalashnikov. Dove possono, anche i civili inermi si schierano per ostacolare i carri, in scene stile piazza Tienanmen già viste a Mariupol nel 2014.

Nonostante l’evidente sproporzione delle forze, insomma, gli ucraini combattono, e venderanno cara la pelle. Respingerebbero con sarcasmo gli inviti dei pacifisti di casa nostra a mollare, per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Una controprova? La Crimea è stata ceduta senza combattere, eppure questo ha incoraggiato la secessione cruenta del Donbass. Se l’Ucraina non avesse reagito, avrebbe cessato di esistere come nazione. Lo stesso vale adesso. La storia insegna che l’appeasement non evita le guerre, le rinvia soltanto.

Una reazione così decisa e fiera stupisce tanto gli occidentali quanto i russi. I primi, perché hanno completamente rimosso che l’Ucraina è in guerra e sotto occupazione russa già da otto anni, e non solo dal 24 febbraio scorso. Quanto ai russi, sono stati traditi da un atavico complesso di superiorità e di sufficienza verso una nazione considerata “sorella”, ma sorella minore e sotto tutela; e poi la propaganda la dipinge da anni come la “Nazione 404” (il numero che appare su Internet quando un sito non esiste più).  

È presto per dire se questa guerra forgerà una nuova Ucraina, più coesa e compatta: al momento si combatte per sopravvivere, per le proprie case e la propria vita, non per ideali politici e visioni del mondo. Sotto la minaccia del comune nemico si è tutti uniti.

I profughi e i prossimi anni

Poi verrà il momento di pensare a sé stessi. L’Ucraina era in miseria prima, oggi è in rovina. Non illudiamoci: molti di quelli che oggi arrivano come rifugiati, rimarranno come migranti economici, ulteriormente dissanguando un paese già in crisi demografica. Si calcola che la diaspora ucraina nel mondo ammonti già a dieci milioni di persone.

Facilmente integrabili, bianchi, spesso cattolici, gli emigranti ucraini sono da tempo ben accolti in Polonia per compensare la manodopera che le manca, ed evitare di sobbarcarsi quote degli immigrati che ci arrivano dall’Africa. La stessa Polonia, che qualche mese fa respingeva con idranti e barriere pochi migranti asiatici al confine con la Bielorussia, è ora il centro dell’accoglienza umanitaria di due milioni di profughi: paradossale, no?.

Tra noi, in Italia, c’è già una folta comunità ucraina, laboriosa e pacifica: 250-300mila persone, molte con cittadinanza italiana, in maggioranza donne. La famosa gaffe di due giornalisti Rai, per cui queste sarebbero in gran parte «cameriere, badanti, amanti», denuncia un approccio tradizionale, e un po’ peloso, di tolleranza all’immigrazione purché occupata in settori subalterni e a basso valore aggiunto.

Occorre allora essere consapevoli che gli ucraini hanno spesso un’educazione superiore, sono tecnici qualificati: Jan Koum, l’inventore di WhatsApp, è di Kiev. Questa nuova diaspora voterà con i piedi, e sceglierà per stabilirsi i paesi più accoglienti, inclusivi e con maggiori prospettive di sviluppo umano e professionale. Per cui è difficile immaginare, date le premesse, che i talenti migliori sceglieranno l’Italia.

Cosa succederà all’Ucraina? Le richieste russe sono: riconoscimento della sovranità di Mosca sulla Crimea, dell’indipendenza delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, nel Donbass, e la neutralità, militare e politica, del paese. Zelensky su quest’ultimo punto sembra disposto a trattare: ormai è chiaro, persino a lui, che la Nato è un sogno impossibile. Sul resto, cerca di guadagnare tempo.

È interessante notare come i russi non sembrano invece sollevare alcuna obiezione sulla adesione all’Unione europea. Eppure, tutto è cominciato nel 2014 proprio da un blando progetto di Accordo di associazione e di libero scambio tra Unione europea e Ucraina, che però Putin osteggiava perché minava l’integrazione tra l’industria pesante russa e quella ucraina, eredità dell’Unione sovietica.

Se oggi l’Unione europea non è più un problema, è perché dopo anni di embargo alla Russia e di impoverimento dell’Ucraina, l’obiettivo di integrare le due economie non appare più né utile, né desiderabile. L’Unione europea si prenda pure l’Ucraina: paghi i costi di scelte energetiche sbagliate, dell’integrazione dei migranti, delle sanzioni, e magari pure della ricostruzione di un paese distrutto dalla guerra.   

Occorre però capire cosa rimarrà dell’Ucraina alla fine della guerra. Circolano, come già nel 2014, le carte del progetto “Nuova Russia”: sostanzialmente l’Ucraina verrebbe espropriata di tutta la fascia costiera, fino eventualmente a includere la Transnistria, territorio moldavo occupato da Mosca.  

Dunque tutto sta a vedere dove si fermeranno i russi. O meglio: dove verranno fermati.

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