Nell’agosto del 2014 il parlamento europeo ha commemorato il centenario della Prima guerra mondiale con una grande riconciliazione, sulle note dell’Inno alla gioia, tra storici tedeschi, austriaci, ungheresi, belgi, francesi, inglesi e italiani.

Limitata ai membri dell’Unione europea, anche questa ennesima logomachia sulle trincee e sui cimiteri del “fronte occidentale”, ha dato la misura di quanto l’ottica eurocentrica abbia distorto la percezione della storia e delle conseguenze geopolitiche attuali di quel lontano “suicidio dell’Europa civile” che aveva distrutto, senza mai riuscire a sostituirli, tre secolari imperi multinazionali. Un conflitto generato dalla prima globalizzazione (1870-1914) e dalla spartizione della Cina (1895-1905), e divenuto mondiale nel 1917, l’anno fatale in cui gli Stati Uniti sono entrati in Europa, mentre la Russia ne usciva. E spiega anche perché noi “sonnambuli” non avevamo capito che, sei mesi prima, con la vittoria russa in Siria, la risposta americana in Ucraina, l’annessione russa della Crimea e le nostre prime sanzioni, quel vulcano che credevamo spento aveva ripreso a eruttare.   

La prima guerra fredda

Nell’ottobre 1916 John Maynard Keynes annota nel suo diario che, accettando il modesto prestito americano per poter continuare la guerra, l’Inghilterra aveva pignorato e perso l’impero. E Vladimir Lenin, annotando Carl von Clausewitz – precisamente il passo II 23 del Vom Kriege, il suo trattato di strategia militare – nella biblioteca pubblica di Berna, scrive che la guerra in corso tra capitalisti è ancora un torneo cavalleresco (igra) rispetto alla guerra vera (vojnà) che sarebbe scaturita dalla rivoluzione proletaria.

Il 3 marzo 1918, dopo un drammatico dibattito interno, la delegazione sovietica capeggiata da Lev Trotskij accetta presso la città di Brest (oggi Bielorussia) la pace definita «rivoluzionaria» dallo storico Wheeler-Bennett, imposta dagli imperi centrali, riconoscendo l’indipendenza di Finlandia, Paesi Baltici, regno di Polonia e Ucraina.

La pace consentiva alla Germania di poter trasferire ingenti forze per l’ultima spallata sul fronte occidentale (la “battaglia per il Kaiser”), ma anche, in teoria, di prolungare la resistenza bilanciando il differenziale logistico americano col grano ucraino, il carbone del Donbass, il petrolio di Baku e Groznyj e il manganese del Caucaso.

Il pericolo più immediato era però rappresentato dall’obiettivo della divisione tedesca sbarcata in aprile a Helsinki e riunita con gli insorti finlandesi a Rovaniemi, 560 chilometri a sud ovest di Murmansk, unico porto artico libero dai ghiacci anche in inverno e adatto per i sottomarini tedeschi, benché privo di corrente elettrica e acqua potabile: impadronirsi dei depositi di materiale bellico alleato inviato lì nell’estate 1917, e nella città di Arcangelo tagliare la ferrovia Murmansk-Pietrogrado per impedire alla legione cecoslovacca (formata dagli ex-prigionieri austro-ungarici) di trasferirsi in Francia per continuare a combattere.

È con lo scopo di parare questa minaccia che l’Intesa decide di far sbarcare a Murmansk un corpo di spedizione di 22mila uomini inclusi 1.200 italiani, e il 2 agosto promuove un putsch secessionista ad Arcangelo, trasformando l’intervento da antitedesco ad antibolscevico.

Definita dagli storici «la crociata di Churchill» (Kinvig, 2006), la «prima Guerra fredda» (Laughton 2012), la «diplomazia del caos» (Moffat, 2015), l’intervento alleato non era stato una profilassi anticomunista («stamping out the virus», come diceva nel 1919 il famoso generale inglese J. F. C. Fuller), ma il confuso tentativo dell’Intesa di tamponare le conseguenze delle proprie contraddizioni geostrategiche, del troppo limitato sostegno logistico e finanziario allo sforzo bellico russo e del mancato coordinamento operativo col fronte occidentale, fino al fatto di non aver saputo profittare dell’imprevisto successo dell’offensiva di Brusilov condotta nel 1916 dall’impero russo, considerata da molti la più grande vittoria della Triplice intesa durante tutta la guerra.

L’evento si considera frutto del segreto disprezzo per l’impresentabile alleato autocrate e straccione e della cinica idea di sfruttare senza contropartite geopolitiche, e anzi con segreti propositi ostili, il sacrificio dell’esercito zarista, il quale, combattendo contro il naturale alleato tedesco e a favore del vero nemico, aveva avuto in tre anni più caduti di tutta l’Intesa.

Tradizione imperiale

Ukrainian police gesture during an airstrike alarm outside the railway station in Kyiv, Ukraine, Monday, Feb. 28, 2022. Explosions and gunfire that have disrupted life since the invasion began last week appeared to subside around Kyiv overnight, as Ukrainian and Russian delegations met Monday on Ukraine's border with Belarus. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Esecrata come imperialista dalla storiografia sovietica, nel 2012 la guerra del 1914-1917, “grande e dimenticata”, è stata reinserita da Vladimir Putin nella tradizione imperiale russa, insieme ad altri gesti simbolici, come il ritorno in patria delle spoglie del generale “bianco” Denikin, ultimo difensore dell’unione russo-ucraina, o la celebrazione del 400° della dinastia dei Romanov e delle “campagne per la liberazione d’Europa” che hanno visto per due volte, nel 1814 e nel 1815, l’ingresso di Alessandro I a Parigi, alla testa delle armate coalizzate.    

L’intervento alleato nella guerra civile russa, condotto con aiuti e consiglieri militari e soprattutto con 60mila ex-prigionieri cecoslovacchi e 70mila giapponesi, viene visto dagli inglesi, ma non dai francesi, come una nuova guerra di Crimea, atta a declassare la Russia a potenza regionale escludendola non solo dal Baltico, ma anche dal Mar Nero e dal Caucaso e per impadronirsi del petrolio azero.

A ridisegnare le frontiere post-zariste troviamo non a caso Sir Halford Mackinder, l’autore della famosa conferenza del 1904 che aveva benedetto l’attacco giapponese a Port Arthur e fondato la retorica geopolitica occidentale del Russia delenda. Disegno che però non poteva più contare sulla Turchia, essa pure in lotta per la sopravvivenza dopo la spartizione anglo-francese dell’ex-impero ottomano – avvenuta con la consulenza storica di Arnold Toynbee e analoga a quella di Robert William Seton-Watson per l’ex-impero asburgico – e che pure era stata controproducente, delegittimando come antipatriottica la resistenza democratica russa e compattando il fronte nazional-bolscevico.

Mentre gli Stati Uniti intervengono in Siberia proprio per scoraggiare le mire espansioniste del Giappone, peraltro costringendo l’Inghilterra a mettere fine alla formale alleanza con Tokyo (1902-1920) che aveva reso possibile la “guerra per procura” del 1904-1905, oggi considerata da vari storici come la «guerra mondiale numero zero».

La guerra sovietico-polacca

A couple talks after people rushed to board a Lviv-bound train in Kyiv, Ukraine, Monday, Feb. 28, 2022. Explosions and gunfire that have disrupted life since the invasion began last week appeared to subside around Kyiv overnight, as Ukrainian and Russian delegations met Monday on Ukraine's border with Belarus. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Fra le conseguenze del cataclisma geopolitico provocato dal crollo degli imperi zarista, asburgico e ottomano, quella che più impatta e presenta impressionanti analogie con il corrente conflitto russo-ucraino riguarda la rinascita della nazione polacca, non domata dalle brutali repressioni russe delle insurrezioni del 1830 e 1863 incoraggiate e subito abbandonate da Inghilterra, Francia e Italia.

Fin dal 1914 la Germania gioca la carta polacca contro la Russia e nel novembre 1916 convince l’Austria a dare uno sfogo all’identità polacca resuscitando a Varsavia, e sulla sola parte russa della Polonia, uno stato nazionale. Ma il 7 ottobre 1918 il consiglio di reggenza del Regno di Polonia proclama l’indipendenza dell’intera nazione polacca con la riunione delle parti tedesca e austriaca (Posen, Cracovia e Leopoli) e chiama alla presidenza del nuovo stato Józef Piłsudski, il leader socialrivoluzionario prima scelto e poi imprigionato dai tedeschi, che assume il comando supremo col grado di “maresciallo”.

La pace separata di Brest del marzo 1918, e la decisione degli Alleati di non riconoscere il governo bolscevico, determinano l’esclusione della Russia dalla conferenza di pace interalleata, mentre il ritiro, nel febbraio 1919, dei 500mila soldati tedeschi ancora schierati sui 2.400 chilometri di frontiera tra il golfo di Finlandia e il mare d’Azov, estende la guerra civile russa e ucraina provocando anche altri conflitti nazionalisti fra gli stati successori dell’impero zarista. In particolare, l’idea di Piłsudski (che risaliva al 1830) di federare contro la Russia le storiche nazioni risorte “fra i due mari” Baltico e Nero (Intermarium), sconfessata dall’Intesa, viene respinta da lituani, bielorussi e ucraini, che la vedevano come il tentativo di sostituire la “russificazione” con la “polonizzazione”.

Come in Ucraina, anche in Lituania indipendenza nazionale e rivoluzione socialista entrano in conflitto. Caduta sotto il controllo bolscevico, nel febbraio 1919 l’area di Vilnius (a maggioranza polacca) si fonde con la Bielorussa sovietica. Con l’arrivo delle dieci divisioni organizzate dal generale Haller in Francia e in Italia con gli ex-prigionieri tedeschi e austriaci di nazionalità polacca, nell’aprile 1919 la Polonia interviene in Lituania occupando Vilnius, pensando di annetterla, e in agosto Minsk. In giugno, intanto, strappa definitivamente Volinia (ex-russa) e Galizia (ex-austriaca) all’Ucraina già affamata dal brutale saccheggio tedesco e poi dilaniata da undici eserciti contrapposti.

Nel vano tentativo di rincorrere, con crescente affanno e crescenti contrasti, la continua evoluzione dei conflitti post-zaristi, in novembre l’Alto consiglio interalleato di Parigi riconosce “temporaneamente” (per venticinque anni!) lo stato di fatto nelle regioni occidentali dell’Ucraina. Sei mesi dopo, mentre l’armata bianca meridionale collassa, in rotta verso la Crimea, Symon Petliura, atamano cosacco e presidente socialista ma antibolscevico della Repubblica popolare ucraina, accetta di cedere Leopoli alla Polonia in cambio dell’aiuto a ristabilire il suo governo a Kiev.

Il 25 aprile 1920 soverchianti forze polacche danno inizio all’offensiva, appoggiata dalla guerriglia anarchica, e il 6 maggio entrano a Kiev, evacuata dalle scarse forze sovietiche.

Presentata dai bolscevichi come una duplice aggressione, alla rivoluzione e alla madre Russia, l’offensiva polacca produce un’ondata di patriottismo non solo in Russia, ma anche in Ucraina, mentre le sinistre europee si schierano decisamente con Mosca, convincendo Trotskij di poterne approfittare per scatenare la rivoluzione in Germania e in Ungheria.

Secondo Michail Tuchačevskij, comandante dell’armata occidentale (Smolensk), l’armata rossa era «un’orda», ma la sua forza stava appunto nell’essere tale, giudizio condiviso dallo stesso Piłsudski.

La controffensiva, iniziata il 15 maggio col passaggio della Beresina, coglie di sorpresa i polacchi che arretrano di 100 chilometri. Il 31 maggio il generale Egorov inizia la controffensiva sul fronte ucraino, e la celeberrima armata a cavallo di Semën Budënnyj insegue i polacchi ben oltre Kiev (evacuata il 13 giugno).

Ricevuti ingenti rinforzi, il 4 luglio Tuchačevskij riprende l’offensiva, l’11 entra a Minsk, il 14 a Vilnius. La tenaglia sovietica sulla Polonia terrorizza i governi europei ma i portuali tedeschi e i ferrovieri cecoslovacchi sabotano l’invio di aiuti militari e la Cecoslovacchia nega il passo a un corpo ausiliario magiaro. Attraverso il porto di Gdynia giungono comunque il maresciallo Maxime Weygand – con volontari, artiglierie, mitragliatrici, carri armati e cavalli – e l’11 luglio il ministro degli Esteri George Curzon invita i sovietici a fermarsi sulla linea di demarcazione stabilita in dicembre a Parigi.

Il 1° agosto Tuchačevskij oltrepassa Brest, senza aver tuttavia potuto accerchiare e annientare le forze polacche. Il 12 la sua cavalleria è a 50 chilometri da Varsavia. Il 15, festa dell’Immacolata, mentre l’intera società civile polacca si mobilita per l’estrema difesa della capitale, papa Benedetto XV, su preghiera dei vescovi polacchi, indice un rosario per impetrare dalla Madonna la vittoria cattolica, come era avvenuto trecento anni prima (1620) alla Montagna Bianca e nel 1683 a Vienna.

L’indomani avviene quello che Piłsudski ha poi chiamato «il miracolo della Vistola» (riferendosi a quello della Marna). Il 16 agosto Haller sferra da sud la controffensiva che rompe l’assedio di Varsavia. Il 18 Tuchačevskij è costretto a ordinare la ritirata che presto si trasforma in rotta, estesa anche al fronte ucraino, che costa ai sovietici la perdita di quasi metà delle forze impiegate.

Ripresa Minsk, il 18 ottobre Piłsudski acconsente all’armistizio chiesto da Lenin, lasciando Kiev ai sovietici. La pace, firmata a Riga nel marzo 1921 dopo una serie di rivolte contadine russe, culminata in quella dei marinai di Kronstadt, sancisce la rinuncia di Piłsudski all’Intermarium, tradendo il patto con Petliura in cambio di una frontiera orientale sicura, basata sulla spartizione della Bielorussia col confine a Brest.

L’analogia con la guerra in corso

In queste settimane l’esempio del 1920, l’unione e il coraggio che mettono in rotta l’aggressore, ha contribuito all’eroica resistenza ucraina. Gli storici militari vedono però un’altra analogia. Quella tra le attuali operazioni russe e le lezioni che la dottrina militare sovietica ha appreso dalla battaglia della Vistola e poi applicato durante la grande guerra patriottica del 1941-1945. Ossia quella teoria dell’arte operativa così poco obsoleta da essere stata recepita in misura crescente dalla dottrina americana, e che ha reso possibile ai russi, per la prima volta dopo il 1945, di sincronizzare cinque armate su un fronte di 3mila chilometri e paralizzare le forze ucraine, riducendole alla difesa statica delle principali città.

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