I giocatori di scacchi raramente si curano della scacchiera. I ponti sono destinati a essere attraversati o distrutti, ma raramente ci si ferma a considerarli. Così l’Ucraina ogni tanto torna alla ribalta delle scene internazionali, eppure questo paese, apparentemente così cruciale, è anche il meno studiato d’Europa.

Nel 2014 all’epoca della crisi nota come Euromaidan, la stampa anglosassone titolava: What is Ukraine?, “cosa”, e non “dove” è l’Ucraina. Una risposta era in un libro del 2003 del secondo presidente, Leonid Kučma, dal titolo L’Ucraina non è la Russia. Ma una definizione antitetica non equivale a un progetto nazionale.

Diventata indipendente suo malgrado trent’anni fa con lo scioglimento dell’Unione sovietica – che non è stata una vittoria dell’occidente, ma la decisione sovrana della Federazione russa di sbarazzarsi del partito comunista e di parte dell’impero – l’Ucraina si è dichiarata neutrale. Qualunque scelta di campo l’avrebbe portata alla frantumazione. Così ha perso il treno dell’allargamento dell’Unione europea, nel momento di massima debolezza della Russia, che invece gli stati del Patto di Varsavia e le ex repubbliche sovietiche del Baltico si sono affrettate a prendere, insieme all’ombrello della Nato. Strabica nel guardare sia a est sia a ovest – divisa tra troppe anime (i cattolici uniati, gli ortodossi di obbedienza moscovita e quelli di obbedienza kieviana, i tatari musulmani, gli ebrei), e un ventaglio linguistico che va dalla lingua ucraina parlata nell’ovest e sempre meno compresa man mano che ci si spinge nell’est russofono – l’Ucraina è così rimasta in mezzo al guado: una democrazia, ma inefficiente, corrotta, disfunzionale.

Il prezzo è la stagnazione: dal 1990 le economie della Polonia e dell’Ucraina, prima sostanzialmente equivalenti, cominciano a divergere. Una cresce e l’altra declina.

La rivoluzione del 2014

La corruzione dilaga, il debito estero cresce, soprattutto durante il mandato del presidente filorusso Viktor Janukovyč. Nel 2013 si fronteggiano due proposte: l’Unione europea, con un Accordo di associazione, e la Russia con una Unione economica eurasiatica.

Quest’ultima è una delle tante forme con cui si cerca, non di ripristinare l’Unione sovietica, ma di conservare il sistema di scambi che essa consentiva. L’apparato industriale sovietico, spezzettato tra i diversi stati eredi, li rende economicamente interdipendenti: per esempio l’Ucraina produce motori e pezzi di ricambio essenziali per l’industria bellica russa.

L’Accordo di associazione non è la piena membership dell’Unione europea, e nemmeno l’anticamera. Semplicemente la Germania, dopo aver integrato i paesi dell’allargamento nella sua catena del valore vuole usare l’Ucraina in funzione antirussa. I rapporti tra russi e tedeschi datano a un millennio fa, sono di competizione ma anche di collaborazione. La Germania cerca di ottenere una posizione di forza con la Russia e al tempo stesso una partnership esclusiva nel settore energetico. Il gasdotto sottomarino Nord Stream 1 che bypassa i paesi baltici è del 2012.

Gli americani sono anche antirussi, ma non amano il progetto tedesco, che essenzialmente fa dell’Unione europea un concorrente degli Stati Uniti a guida germanica. «Fuck the Eu» è la frase con cui l’inviata statunitense Victoria Nuland è passata alla storia. La loro idea è la “teoria del virus”: l’esportazione della democrazia, dello stato di diritto, così da creare un fulgido esempio che provochi un cambio di regime in Russia. Idea velleitaria perché i russi vedono la televisione, hanno internet, ma hanno in orrore l’instabilità.

Il presidente Janukovyč sceglie alla fine il progetto russo – che, se non altro, ha il merito di fornire cash immediato – ma qui si spezza il compromesso su cui si regge l’Ucraina: nessuna scelta di campo o il paese si divide.

Euromaidan, dal nome di piazza dell’Indipendenza a Kiev dove si svolgono drammatici ma localizzati scontri nel 2014, non è una rivolta contro la Russia ma contro la corruzione, e in nome di una integrazione europea che è solo immaginaria. Le bandiere blu con le stelle d’oro scompaiono presto, lasciando il posto a simboli più inquietanti: quelli delle formazioni paramilitari nazionaliste e neofasciste che vogliono un’Ucraina che parli solo ucraino.

Janukovyč fugge e la Russia perde la calma. La Crimea – russofona ed essenziale base navale della flotta russa – viene annessa senza alcuna resistenza. È un piano studiato da anni, i passaporti russi sono stati distribuiti con larghezza, e chi scrive è il primo a predire la secessione sulla stampa italiana. Questo precedente incruento crea l’illusione in altre zone russofone che l’operazione si possa ripetere senza conseguenze. Gli ucraini invece stavolta reagiscono disperatamente, combattendo nella regione carbonifera del Donbass. Poi gli accordi di Minsk I e II – negoziati sotto gli auspici del formato Normandia (Russia, Ucraina, Germania, Francia) pongono un freno al massacro. L’Ucraina per prima però non li applica, perché sarebbero un suicidio politico. Il conflitto dura tuttora, a bassa intensità, ma Russia e Ucraina hanno mantenuto relazioni diplomatiche e commerciali: formalmente non sono mai state in guerra.

Verticale del potere

E veniamo a oggi. Il nuovo presidente Volodymyr Zelens’kyj, un comico, esponente di quegli oligarchi che come Kolomoyskyi hanno fermato la disintegrazione dell’Ucraina (gli oligarchi non ne vogliono sapere dello stato forte di Vladimir Putin), viene eletto con due obiettivi: combattere la corruzione; e cessare con la polarizzazione linguistica che divide ucrainofoni e russofoni.

L’Ucraina ha un talento negativo per le relazioni pubbliche: per esempio in Italia se ne parla sia per fatti bizzarri (l’inserimento di Al Bano nella lista nera), che tragici (la mancata collaborazione alle indagini sulla morte di Andrea Rocchelli).

Zelens’kyj – la cui popolarità è in calo – prova a creare una sua verticale del potere, mette al bando potenti filorussi, e passa tutto lo scorso 2021 a cercare un rapporto con Joe Biden, soprattutto con l’obiettivo di bloccare l’operatività del nuovo gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2. Quando il presidente americano prende troppo a cuore la causa ucraina, Zelens’kyj si tira indietro spaventato. Nega che ci sia una minaccia russa, dice brutalmente a Biden che non ha una chiara comprensione della situazione, chiude la porta in faccia ad Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri tedesca.

La diplomazia e la stampa occidentali gridano all’invasione imminente, e invece gli ucraini, che dovrebbero essere terrorizzati, gettano acqua sul fuoco. Putin, con la sua strategia da judoka, ha trasformato la forza altrui in debolezza, riuscendo a dividere gli interlocutori euroatlantici e a porre sul tavolo il tema dell’indivisibilità della sicurezza russa dalla sicurezza europea. Perché anche se Ucraina significa “terra di confine”, i geografi ci avvertono che lì è il centro geografico dell’Europa. Anche la Russia è Europa.

Gli ucraini guardano increduli l’attivismo frenetico di leader deboli di paesi potenti (Joe Biden in crisi epocale di consensi, Boris Johnson coinvolto in uno scandalo, la Germania orfana di Angela Merkel che ora deve pagare dazio sia all’Europa sia alla Russia), e pensano che tutti vogliano riguadagnare credibilità a loro spese.

Cosa vogliono gli ucraini

Ma cosa vogliono realmente i cittadini ucraini? Adesso la fine della guerra. Normalmente molti vogliono andarsene, e non tornare più.

Non si sa esattamente quanta gente abiti oggi in Ucraina (l’ultimo censimento è del 2001) e lo stato non ci tiene a farlo sapere, ma il paese è in piena contrazione demografica, per emigrazione e bassa natalità. Gli abitanti del Donbass occupato hanno ormai preso la cittadinanza russa. I dieci milioni di ucraini della diaspora brillano per il loro silenzio indifferente.

Tutti sono stufi: basta conflitto, basta corruzione, basta far da cavie a esperimenti geopolitici, e da scacchiera a un gioco più grande di loro; basta amici interessati che dicono «armiamoci e partite»; basta con l’elemosina degli aiuti internazionali che creano solo dipendenza; basta con l’allarmismo che fa scappare i giovani e le menti migliori, e scoraggia i residui investimenti esteri (con l’eccezione significativa della Cina).

La Nato non combatterà per loro; nonostante gli aiuti allo sviluppo e l’accordo commerciale con l’Unione europea, il paese contende ormai alla Moldavia la maglia nera di territorio più povero d’Europa: non ci sono indizi di un riavvicinamento alla Russia, ma di sicuro in Ucraina il prestigio dell’occidente è ora ai minimi termini.

Forse Kiev avrebbe tolto tutti d’imbarazzo se avesse recuperato lo status di neutralità anteriore al 2009, cessando di chiedere di appartenere a club che non l’hanno invitata e non la vogliono. “Finlandizzazione” sembrerà una parolaccia, ma oggi la Finlandia, ex granducato zarista, è uno dei paesi più ricchi, stabili e meno corrotti del pianeta, nonostante il vicino russo. Ora è troppo tardi.

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