«State sintonizzati! It’s a new day in America». Tutte le televisioni del mondo iniziano la più lunga giornata televisiva, dedicata al futuro della democrazia nel mondo.

Eccolo, anzi eccoli: c’è Melania in nero e occhialoni, cammina sul prato verso l’elicottero, mattina presto, due valletti dietro portano il bagaglio a mano. La telecamera della Cnn è posta quasi in cielo per cui sembrano due figurine del presepe. «Come sembra piccolo!» è il primo commento della cronista. È vero: piccolo, svuotato. Da quindici giorni è senza Twitter.

Il discorso alla base aerea nel Maryland, davanti ai parenti stretti – e sempre, ahimè, con il sottofondo di Gloria di Umberto Tozzi – è stato breve e triste: «Ci rivederemo, in qualche forma. Vi auguro una buona vita, ci vedremo presto». Né minacce, né promesse, né rivincite, né vendette, né rimpianti. È andata così. Evita Perón, che era populista sul serio, se ne andò a 33 anni per cancro, ma fece in tempo a mormorare il famoso «volvere y sere milliones»; Trump non si era preparato niente: forse non era un vero populista, forse senza Twitter era come Sansone senza i capelli. Era squallido.

La storia, ora, dovrà decidere chi è stato e come mai è caduto. Se tutto quello che è successo, è successo per caso, se è stato un «grande uomo», secondo i criteri del Carlyle, un pupazzo inventato dal Kgb, un prestanome della cleptocrazia, fase suprema del capitalismo finanziario, il caso psichiatrico più studiato da sempre o il piccolo palazzinaro del Queens, cresciuto sgomitando e apprendendo da Anthony Fat Salerno le tecniche di conquista del potere, ovvero l’aggressione, la violenza, la menzogna, l’intimidazione.

Tra le varie opzioni sceglierei quest’ultima. Quando vinse, inaspettatamente, le elezioni, una delle prime cose che fece fu licenziare il capo dell’Fbi, cui aveva imposto di lasciar stare “my people”; gli aveva poi fatto l’offerta che non si può rifiutare: «O firmi questo contratto oppure il tuo cervello spiacciacato etc. etc», l’aneddotto lo sanno tutti. James Comey, il capo del Fbi licenziato, raccontò tutto in un libro, compresa la sua definizione del personaggio: è un capo mafia vecchia scuola, siculo americana. Ragiona come loro, è organizzato come loro; è distante mille miglia da quello che noi chiamiamo la democrazia parlamentare, che è un concetto che non gli appartiene. D’altronde, il presidente ebbe a dire: «Posso sparare a un uomo sulla Quinta Strada in pieno giorno, me ne posso andare tranquillo, e non perderei neanche uno dei miei elettori».

Cito questi due episodi per dire che, in buona sostanza, si sapeva come sarebbe finita la storia, con Donald Trump. E per sottoporre alla vostra attenzione una storia strana.

Il potere logora

Tre anni fa scambiai quattro parole con Francis Ford Coppola, il famoso regista, e gli chiesi come avesse potuto sceneggiare, nel Padrino III (anno di lavorazione il 1990), che Giulio Andreotti era il capo della mafia, quando in Italia chiunque lo avesse sostenuto, sarebbe andato in galera per diffamazione.

Signor Coppola, nel Padrino III, una delle scene più famose, mostra il killer di Michael Corleone che uccide un politico italiano conficcandogli i suoi stessi occhiali nella carotide e bisbigliandogli all’orecchio: «Il potere uccide chi non ce l’ha». Lei sapeva che con quella frase identificava il morto con Giulio Andreotti?
Ovviamente.
Sì, ma il problema è che nessuno in Italia nel 1990, nessuno lo sapeva…
Andiamo! Lo sapevano tutti!
Beh, però nessuno avrebbe potuto dirlo. Volevo sapere se avete avuto problemi legali…
No, no, nessun problema legale. Andreotti, il Vaticano, la mafia: lo sapevano tutti…

Non era proprio così. Nel 1990, almeno ufficialmente, Giulio Andreotti era il più rispettato uomo politico italiano, e uno dei principali alleati dell’amministrazione americana, all’epoca retta da George Bush il vecchio. E, francamente, mi sembra difficile che una grande produzione di Hollywood abbia potuto mandare nelle sale di tutto il mondo il suo film più famoso con la possibilità di creare, come minimo, un incidente diplomatico. Non solo, ma il film purtroppo anticipava la realtà: lo scontro finale tra la famiglia Corleone, che si considera ormai legittimo capitale finanziario americano, e il potere finanziario italiano e vaticano avrebbe avuto sede – con uno sfoggio di violenza mai vista prima – in Sicilia. Nel film Andreotti viene ucciso, Papa Luciani (che stava con gli americani), viene trovato morto, il banchiere cattivo muore sotto il ponte dei frati neri. Decisamente realistico, se pensate a quanto avvenne in Italia appena due anni dopo. E, a proposito: Giulio Andreotti venne mandato a processo come capo della mafia nel 1993.

Il Padrino III, a suo tempo, venne considerato “esagerato”. Ma dite voi se questa scena, vera, non è altrettanto esagerata: alle 12 del 6 gennaio 2021 il vicepresidente Mike Pence presiede la seduta del Congresso chiamata, come da antico protocollo, a certificare l’elezione di Joe Biden a 46esimo presidente degli Usa. Vicino a lui, la speaker della Camera Nancy Pelosi. Pence ha appena detto, in poche (soffertissime) parole, che non è nelle sue prerogative cambiare il risultato, ma ha permesso al senatore del Texas Ted Cruz di proporre una procedura inaudita: una commissione d’inchiesta che, perlomeno, ritardi la certificazione ufficiale – sulla base di un precedente del 1877.

A distanza di un chilometro in linea d’aria, il suo capo, Donald Trump sta aizzando la folla perché marci sul Senato e, letteralmente, «spinga Mike Pence a superare le sue debolezze». La folla entra nell’edificio intorno alle 13,30. Alle 14,16 la polizia fa sgombrare Pence e gli altri senatori, un minuto prima che questi sfondino le porte che conducono all’aula e agli uffici. La stessa cosa succede per gli uffici della Camera. Fotografie e video diffusi il giorno dopo mostrano i rivoltosi armati, in possesso di manette di plastica e addirittura di un cappio, che rivelano i loro intenti: prendere prigionieri o addirittura impiccare i “traditori”, che – per loro fortuna – se la sono cavata.

E adesso, ditemi voi: la trama del Padrino III era davvero così esagerata?

La folla, il popolo

Per primo il Washington Post ha pubblicato lunedì scorso una ricostruzione della qualità della “folla” che ha assaltato il Campidoglio di Washington il 6 gennaio scorso. Venivano da almeno 36 stati, e anche dal Canada. Hanno viaggiato con tutti i mezzi, dall’aereo all’auto, ai pullman, ai jet privati, hanno dormito in albergo, sono ripartiti, in genere la sera dopo. Erano tutti “di razza bianca”, la stragrande maggioranza maschi; il gruppo più numeroso, organizzato ed armato era quello dei Proud Boys, moltissimi i seguaci di QAnon. Tutti sapevano perché erano lì: erano la milizia del presidente e dovevano ribaltare il risultato elettorale.

Con i giorni, nuovi raccapriccianti particolari, video, testimonianze sul livello di preparazione militare si sono susseguite, e hanno coinvolto membri delle forze armate e, addirittura hanno indicato la possibile collusione di deputati e senatori in appoggio ai rivoltosi. L’Fbi dice di avere 140.000 immagini su cui lavorare, che rimandano a migliaia di profili Facebook, etc, etc. Insomma, mai nella storia dell’umanità una “folla” ha l’opportunità di essere profilata, studiata e arrestata. L’Fbi possiede oggi più dati sulla “folla” americana – riconoscimenti faciali, biografie, indagini di intelligenza artificiale, conti in banca, alibi e parentele – di quanto il Grande Fratello cinese possegga sugli uiguri.

È abbastanza pradossale, se ci si pensa: la tecnologia si scopre – forse per la prima volta – è in grado di uccidere se stessa. Di mangiarsi. Qualcuno può ragionevolmente pensare, dopo gli avvenimenti del gennaio 2021 che gli attuali Facebook, Twitter, Google abbiano un futuro?

L’abisso

Molte cose belle sono state scritte su questo gennaio 2021. Segnalo qui un saggio molto profondo – e che si sta imponendo nella conversazione politica - pubblicato dal New York Times magazine. Si intitola The American Abyss, lo ha scritto Timothy Snyder, professore di storia a Yale e studioso dei fascismi e dell’Olocausto; l’anno scorso, nell’analizzare le tendenze dittatoriali del presidente Trump, aveva pubblicato un piccolo manuale, On tyranny, che passava attraversava la storia delle idee autoritarie.

Secondo Snyder, «quando Trump si è presentato davanti ai suoi seguaci, spingendoli a marciare sul Campidoglio, non stava facendo altro che quello che aveva sempre fatto: non aveva mai creduto veramente nella democrazia elettorale, né aveva mai accettato la sua legittimazione della sua versione americana(…) Anche quando vinse, nel 2016, insistette sul fatto che le elezioni erano state fraudolente e che milioni di voti falsi erano stati dati alla sua oppositrice. Nel 2020, ben sapendo che tutti i sondaggi lo davano perdente, aveva passato mesi ad annunciare frodi elettorali e a far sapere che non avrebbe accettato i risultati se non fossero stati a suo favore. Il giorno delle elezioni si proclamò vincitore e per due mesi passò il tempo a fortificare la sua propaganda: la sua vittoria era diventata una storica valanga, e per appoggiare questa menzogna aveva avuto bisogno di teorie complottiste sempre più sofisticate e implausibili. La gente gli credeva, e questo non sorprende. Ci vuole un lavoro immane per educare i cittadini a resistere a quella spinta potente che li porta a credere a quello che già credono, o che dà ragione alle loro scelte precedenti».

Per Snyder, Trump è riuscito su questo terreno, portando dalla sua una parte del partito repubblicano che condivide con lui l’idea che occorra «rompere il sistema e prendere il potere senza la democrazia». È “fascismo”, questo, si chiede Snyder?, ricordando quanto il dibattito politico abbia spesso associato Trump a questo fenomeno storico e quanti altri abbiano respinto con sdegno il paragone. Snyder non si pronuncia, ma sottolinea alcune somiglianze con l’affermazione del nazismo. «Come Hitler, Trump si è presentato come unica fonte di verità. Il suo uso del termine “fake news” evoca l’insulto nazista Lügenpresse (stampa menzognera); come i nazisti, si è riferito ai giornalisti come nemici del popolo. Come Hitler, Trump è assurto al potere in un momento di grave crisi della stampa tradizionale: la crisi finanziaria del 2008 ha fatto ai giornali americani quello che la grande depressione aveva fatto ai tedeschi. I nazisti pensarono che avrebbero potuto usare la radio per rimpiazzare il vecchio pluralismo dei giornali. Trump ha cercato di fare la stessa cosa con Twitter. Grazie alle nuove capacità tecnologiche e al suo talento personale, Trump ha mentito ad un livello superiore a qualsiasi altro leader nella storia. Per la maggior parte erano “piccole o medie” bugie, ma il loro effetto era cumulativo. Credere a tutto ciò insieme significava accettare l’autorità di un solo uomo, perché credere a tutte le menzogne insieme, significava non credere a qualsiasi altra cosa. Una volta ottenuta una tale autorità, il presidente poteva trattare tutti come bugiardi; poteva permettersi di far diventare un fedele alleato in un mascalzone con un solo tweet».

Però, conclude Snyder, «fino a quando non avesse affrontato una Big Lie, una di quelle menzogne che creano una realtà alternativa totale in cui la gente possa vivere e morire, il suo era ancora un pre-fascismo». Ma quali sono stati, nella storia, le grandi menzogne? Snyder mette al primo posto quella hitleriana per cui «gli ebrei governano il mondo», poi a seguire quella di Stalin per cui la carestia dell’Ucraina del 1932-1933 (milioni di morti di fame) era causata non dal disastro della collettivizzazione forzata, ma da agenti provocatori dell’occidente in odio al socialismo. Ricorda che Hannah Arendt diceva che la pratica della menzogna funzionava meglio sulle «menti solitarie» e Snyder nota che con i social media, le menzogne di Trump hanno raggiunto milioni di «menti solitarie». Il 6 gennaio Trump era pronto per diffondere finalmente la sua Grande Menzogna; le elezioni erano state falsate perché avevano votato (avevano avuto il permesso di votare) milioni di afroamericani. A questa cosa lui «avrebbe posto rimedio», e dal pre-fascimo si sarebbe passati al fascismo conclamato.

Era ottobre o gennaio?

Guardavo e riguardavo le immagini dell’insurrezione americana. E mi sembrava di averle già viste. Ma certo! Era Ottobre, di Eisenstein, chi non lo ricorda? Il più grande film del Novecento, la narrazione della presa del potere del popolo in Russia, nel 1917, nei «dieci giorni che sconvolsero il monndo». C’è un palazzo, ci sono le folle: soldati, operai, contadini. Corrono sulle scalinate, muoiono sotto il fuoco delle guardie, insistono, conquistano, scoprono la cantina dei vini pregiati dello Zar e, invece di bersela, la distruggono. Scoprono il bidet nella camera da letto dalla zarina e ne sono schifati. Il film venne girato nel 1928, a glorificazione della presa del potere bolscevica: quelle immagini hanno conquistato milioni di persone su tutto il pianeta. Fate uno split screen con l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, e resterete imbambolati per le somiglianze. (A proposito: tutto il film di Eisenstein era falso; i bolscevichi entrarono con un manipolo da una porta laterale, non incontrarono resistenza, in tutta l’azione, che fu un colpo di stato, ci furono appena due morti).

Come morì Andreotti?

Con un raro senso del tempo, Coppola ha rimandato nelle sale, appena un mese fa, il suo Padrino III. Gli ha cambiato titolo, ora si chiama Coda. La morte di Michael Corleone e la maggiore novità è il finale: Michael Corleone non muore: rimane lì, eterno. Era davvero così cattivo? Mi è tornato in mente oggi, quando Trump se ne è andato. Se ne è andato per sempre? Sono andato a vedere la famosa scena dell’omicidio di Giulio Andreotti, che nel film si chiama Licio Lucchesi. Il suo killer – porto un messaggio di Michele Corleone - entra nel suo palazzo viene perquisito dalle sue guardie del corpo, Lucchesi è seduto alla scrivania.

Dialogo

Calò, il killer: Vedete, io sono venuto qui per dirvi che la gente non ha più fiducia di voi.

Lucchesi: Chi costruisce sulla gente costruisce sul fango. Allora, il messaggio di Michele Corleone?

Calò: Eccolo. È una cosa molto importante, perciò ve lo debbo dire all’orecchio… Il potere logora chi non ce l’ha! Poi gli strappa gli occhiali e glieli conficca nella carotide. Lucchesi muore in un lago di sangue. Ripensando a questi giorni surreali, con la Casa Bianca spettrale, Pence sfuggito al linciaggio dei sostenitori del suo presidente, Trump privato di Twitter e quindi del potere, la guardia nazionale che bivacca nei corridoi del Senato americano (in cui una settimana prima era stata sfoggiata la bandiera confederata), mi sono chiesto quale sarebbe stato il finale. L’unico punto forte, rispetto a Licio Lucchesi, è che Donald Trump non porta gli occhiali.

Il giorno nuovo

Poi, si è fatto giorno. È arrivata Kamala, è arrivata Jennifer Lopez con This Land is your Land, è arrivata Amazing Grace, è arrivato il gran discorso di Joe Biden e, come credo tutti voi, mi sono commosso. Trump, e con lui quel mondo, quel modo di pensare, i suoi epigoni, di colpo non fanno più paura. Possono tornare, certo, ma l’America ha insegnato qualcosa.

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