Ormai è diventato un luogo comune parafrasare Fukuyama e dire che la storia non è finita. Anzi, che oggi è “tornata”, come se per un certo periodo se ne fosse andata. La domanda che resta inevasa però riguarda cosa sia cominciato dopo quella specie di tregua della storia, che nome ha il nostro tempo e dunque cosa ci aspetti domani.
Il papa da tempo parla di un «cambiamento d’epoca», preferendo questa alla meno impegnativa espressione «epoca di cambiamenti». Come se il mondo che ci aspetta si intravedesse come qualcosa di nuovo, cambiato radicalmente, dunque non ancora giudicabile come diretto necessariamente verso un fatale declino o magnifiche sorti e progressive.
Paradossalmente forse per questo motivo Bergoglio parla da tempo e con tanta insistenza di “popolo”, parola quasi anacronistica nelle società occidentali globalizzate e individualiste: è convinto che la storia non solo non sia finita, ma esiga di essere rinnovata dalle fondamenta, cioè da quel “soggetto storico” che la abita, appunto il popolo. Parola tanto abusata quanto svalutata, che nella mia ricerca (Papa Francesco e il “popolo”. Una sfida per la chiesa e la democrazia, Morcelliana 2022) ho provato a indagare nella prospettiva del papa.

L’attenzione al “popolo”

L’attenzione al “popolo” non è nuova nel magistero cattolico, la sua rivalutazione è stata una delle principali intuizioni teologiche del Concilio Vaticano II, che ha affermato «la chiesa è il popolo di Dio» (Lumen Gentium II). Con Francesco si rinnova quell’intuizione.

«Rifondare con speranza i nostri legami sociali», in queste parole pronunciate nel lontano 2000 a Buenos Aires dall’allora arcivescovo Bergoglio c’è già la missione che sta al cuore del suo messaggio sociale. Un compito che vive necessariamente di tensioni e polarità, e trova le resistenze di un occidente spesso sordo e immobile, rassegnato o compiaciuto del suo status quo. Ma proprio in quanto inattuale Francesco risulta urgente, più che attuale: profetico. E per questo spesso frainteso.

Il malinteso principale che è bene evitare quando si parla del messaggio socio-politico di Bergoglio è quello di leggere le sue parole e i suoi gesti con un riferimento puramente immanente, politicista, sociologico o ideologico, per dir così scordando la città di Dio a favore di quella terrena: dimenticando che il suo ruolo e la sua fede lo pongono inevitabilmente in tensione fra le due città, in cammino da questa a quella, come ogni cristiano.

È in virtù di questo riferimento metapolitico che va letta la sua concezione del popolo, invece banalizzata spesso a populismo, pauperismo o d’altra parte anche a globalismo. Etichette che provano a rinchiudere il pontefice dietro barricate fragili, troppo terrene. Si tratta, a ben guardare, del compimento della logica tipicamente hobbesiana e schmittiana della guerra civile latente, oggi assunta inconsapevolmente a sistema: la logica dell’amico-nemico, inclusione-esclusione, per cui l’unica domanda rimane “da che parte sta il papa”? Domanda semplicemente mal posta. Manca infatti il riferimento al trascendente, che è la chiave di volta essenziale per comprendere i motivi profondi di un messaggio autenticamente cristiano.

Il “pueblo fiel

Al contrario, quando parla di popolo Francesco ha innanzitutto in mente il “pueblo fiel” di cui parla la Teologia del popolo argentina, il popolo di Dio come luogo teologico, il popolo riunito nella pietà popolare, negli atti spontanei collettivi di devozione tradizionale; di conseguenza pensa ai popoli della Terra come soggetti non eterni o naturali, né omogenei e ideologicamente rigidi, ma comunità storicamente in divenire, aggregate e accomunate da luoghi, esperienze e innanzitutto racconti, miti.

«Il popolo è una categoria mitica», ha affermato più volte, non per mitizzare il popolo come entità sovrastorica, ma al contrario per renderne chiara la dimensione narrativa, “tramandata” e dunque anche “tradita”, immerso nella storia e nei suoi processi di cambiamento. Come dirà in un’intervista a padre Spadaro «il popolo si fa in un processo… La storia è costruita da questo processo di generazioni che si susseguono dentro un popolo».

Ha in mente Dostoevskij e insieme la storia dell’Argentina, oltre alla filosofia polare di Romano Guardini su cui aveva iniziato un dottorato. Partendo da lì arriva a dire che «un popolo è necessariamente dinamico». Nessun rigido identitarismo né populismo divisivo si può far derivare da questa concezione: il suo pueblo non è il romantico Volk etnico tedesco, non è folklore ancestrale da difendere contro le contaminazioni del diverso. Si tratta di un popolo situato, concreto, radicato nelle sue tradizioni, e proprio per questo in cammino, aperto verso il vicino, il prossimo, il diverso.

Sembra che molte delle incomprensioni riguardo questa prospettiva derivino da una certo fastidio per la profezia. Seppellite le ideologie, si ha paura anche delle religioni quando debordano dal ghetto del culto nel quale vorremmo relegarle. A essere legittimo in politica sembra allora solo il cinismo, la logica circolare del potere per il potere, del vuoto elevato a sistema, e popolo equivale a massa informe o a invenzione pubblicitaria per manipolare quella massa, plasmarla come si vuole, dandone magari una lettura moralistica, congeniale alla sua strumentalizzazione: se il popolo è buono o cattivo a priori, non è libero per definizione. Diventa oggetto e strumento invece che soggetto responsabile.

Vuoto di politica

Guardando il nostro paese questa deriva sembra effettivamente coinvolgere non solo molti attori politici italiani, ma anche il discorso pubblico, le categorie con le quali in generale si ragiona e si parla di società e di politica: si parla di mezzi senza menzionare i fini, di formule e slogan senza chiarire i significati, si dicono parole sconnesse dalle cose.

Si è giustamente parlato, anche su queste pagine, di un vuoto che ha accompagnato le ultime elezioni, vuoto di idee nella campagna elettorale e vuoto di partecipazione politica come l’affluenza alle urne ha testimoniato. È stato forse l’apice di un processo accelerato già undici anni fa con l’avvento dei governi tecnici, ma in realtà iniziato almeno trent’anni fa con il dissolversi della Prima Repubblica, anzi, forse iniziato ormai quasi cinquant’anni fa, quando il boom si arrestò e la nostra democrazia non riuscì a sbloccarsi.

Questo vuoto di politica è stato vuoto di popolo, sempre più sostituito e deresponsabilizzato, oltre che dall’immagine distorta di sé costruita dal circo mediatico, da due attori opposti e complementari della tecnocrazia e del populismo: da un lato tutori tecnici poco legittimati e fragili, dall’altro vari capipopolo settari, polarizzanti, estemporanei, mai rappresentativi di una collettività integrale.

In questo scenario desolato, non sembra fuori luogo ascoltare un osservatore esterno come il papa, che indica la direzione di un modello democratico non formalistico, non organizzato semplicemente more geometrico. Un modello di rappresentanza non appiattito nella “rappresentazione” demagogica di interessi individuali caoticamente sommati e estratti all’occorrenza; distante dalle finzioni della democrazia diretta quanto dalla democrazia della cooptazione da parte dei leader (con il sistema dei “paracadutati”).

Perché popolo vuol dire più che voti, programmi, contratti o peggio, click: è ciò che dà forza alle istituzioni democratiche non esaurendosi in esse, quella loro linfa vitale che occorre rimettere in circolo per rigenerarle. È quella storia comune che alcuni ritenevano una finzione non più necessaria, mentre sembra restare l’unico racconto credibile di una comunità, l’unica storia degna di essere raccontata, la storia di un popolo in cammino oltre la mera sopravvivenza, «che lotta per un senso, che lotta per un destino, che lotta per vivere con dignità», come diceva il cardinal Bergoglio. Una lotta necessaria ma interna a un cammino esistenziale, senza possibilità di additare all’esterno comodi capri espiatori.

Riannodare il tessuto

È attraverso questa lotta che “tutto è connesso”, come Francesco ripete spesso, “junto”, intessuto insieme, cucito nella stessa trama, nello stesso racconto, in un intreccio multiforme, poliedrico ma non caotico, che ha un disegno invisibile dall’interno. Il compito che sembra indicare a chi vuole ascoltarlo è dunque quello di riannodare quel tessuto, riprendere il bandolo della matassa e ricucire una società sfibrata, senza tagliare corto e tagliare netto con semplificazioni manichee, e senza i rattoppi artificiali di ideologie calate dall’alto.

A proposito ritornano in mente gli appunti degli anni 1987-1988 pubblicati ad aprile 2021 da Civiltà Cattolica, in cui già compare la sua idea secondo cui la realtà «trabocca» dai «rattoppi» del pensiero, eccede le strutture artificiali in cui la rinchiudiamo, le toppe che sono peggio del buco.

Una democrazia di popolo, sembra suggerirci oggi Francesco, può essere guarita solo a patto di abbracciare la realtà umana nella sua eccedenza, nel suo cambiamento continuo, senza imprigionarla nello nostre illusioni e nei nostri cinismi.

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